ANGEL OLSEN, “My Woman” (Jagjaguwar, 2016)

angel-olsen-my-womanIl tema “ragazza con la chitarra” è stato, come avrebbe detto qualcuno, sviscerato, discusso e analizzato di già (cit.). Angel Olsen non è nemmeno alle prime armi, e il suo nome risuona da qualche anno sulle pagine, virtuali o non, dei magazine musicali anche – da ultimo – per il livello di “Burn Your Fire For No Witness” (2014). Motivo per cui questa terza prova sulla lunga distanza poteva avere solo due sbocchi: confermare la 29enne cresciuta nel Missouri oppure affossarla nelle meteore dell’indie americano. Ebbene, la Olsen ce l’ha fatta.

Non perché abbia utilizzato un linguaggio nuovo, come dicevamo qui siamo nell’eterna categoria della ragazza che potrebbe suonare le sue canzoni in un bar americano di provincia con l’acustica mentre invece ha la possibilità di riarrangiarle con basso batteria e chitarra elettrica, e tutto gira. L’ambizione sarebbe quella di guardare alla prima St Vincent, quella ancora non del tutto sofisticata negli arrangiamenti, oppure ad una PJ Harvey degli inizi 2000 meno ruvida, ma l’ambito della Olsen è più soave, meno urlato, più folk nonostante le (piccole) distorsioni. Colpisce la sua duttilità in fatto di voce: canta strascicato, con le parole a mezza bocca, in “Not Gonna Kill You”, ammiccante in “Never Be Mine” (un po’ Zooey Deschanel), sofferta come uno Yorke in gonnella in “Pops” (suggellata da un pianoforte cristallino), utilizzando queste diverse interpretazioni per vestire melodie ispirate.

Se a tutto ciò ci aggiungiamo anche dei video colorati in cui Angel appare in grande forma (io l’ho definita “sana” nel senso di quella bellezza morbida con un etto in più), allora possiamo definitivamente affermare che “My Woman” è un disco che segna in pieno questo periodo.
Non avendo i numeri per fare rivoluzioni, non poteva fare di più.

77/100

(Paolo Bardelli)