I 7 brani della vita dei City Final


I City Final sono tornati a fine aprile con un nuovo album, “Anecdotes”, scritto tra Berlino e Budapest, e registrato tra Firenze e la capitale tra 2014 e 2017. L’album, uscito su Five To Midnight, arriva sette anni dopo l’uscita di “How We Danced” e arricchisce il percorso del progetto che si muove tra songwriting wave erede degli Smiths e quel mood malinconico molto caro agli anni Ottanta d’Oltremanica. Ne abbiamo parlato con Andrea L. P. Pirro, titolare del progetto e accompagnato per questo secondo capitolo targato City Final da Guglielmo Nodari e Raoul Tonachella,

Quali sono le principali differenze a livello di composizione tra “How We Danced” e “Anecdotes”?
Praticamente tutte quelle che è possibile immaginare. “Anecdotes” è stato scritto abbastanza di getto e il suo scheletro registrato in quattro e quattr’otto. Testi e melodie sono state buttate giù in un secondo momento, ma con un’urgenza simile. “How We Danced” è, per certi versi, tutto il contrario del nuovo LP. Mi sono ritrovato con dei testi scritti nel corso degli anni che volevo trasporre in musica; la composizione è stata poi risultato di sperimentazioni di vario tipo, iniziate già ai tempi dell’EP di Passione Nera. Una gestazione ugualmente lunga per entrambi gli album, ma con tempi e approcci diametralmente opposti.

Quali ascolti vi hanno influenzato in questi anni? Come siete finiti a Berlino e Budapest?
Se parli in riferimento ad “Anecdotes”, credo nessuno in particolare. Nel senso, ho un’idea abbastanza chiara di come voglio che suoni un pezzo di City Final e, sotto questo punto di vista, non ci sono ascolti specifici che abbiano definito il sound del nuovo disco rispetto a quello del primo – pur riconoscendone evoluzione e maggiore coerenza. Per il resto, ho ascoltato molto più soul, rocksteady e reggae rispetto a qualche anno fa. Sono invece convinto che siano stati i posti – Budapest e Berlino su tutti – ad aver influenzato la cromia di “Anecdotes”. In Germania e Ungheria ci sono finito per lavoro, il che ha di fatto inflitto una battuta d’arresto alla band per qualche tempo. Al netto di considerazioni sull’economia di una band nata per suonare dal vivo, credo siano state esperienze fondamentali per la genesi del nuovo LP.


Dove sta andando la musica italiana oggi? Quanto ve ne sentite parte?
Domanda da un milione di dollari, vorrei saperlo anch’io. In generale, mi sembra che si sia persa un po’ la voglia percorrere strade meno battute, ma che questo non valga come giudizio trasversale. È difficile parlare in termini di ‘scena’ come se fossimo parte di una sottocultura omogenea, ma mi piace credere che City Final non sia atomo, facendo invece parte di un insieme più grande. Dal nostro canto proviamo a portare la nostra musica in posti meno convenzionali, dove la nostra musica non entrerebbe normalmente, nel tentativo di valicare barriere che consideriamo artificiali. Coltiviamo l’idea che le arti possano comunicare tra loro e contribuire a ripristinare una visione di condivisione nel panorama italiano. Ne riparliamo fra qualche anno e vediamo se le cose sono migliorate o peggiorate?

Ecco invece una selezione dei 7 brani che idealmente hanno disegnato l’orizzonte musicale dei City Final.

Misfits, “Some Kinda Hate”


L’alfa di tutto, la rivelazione totale. Ascoltare “Legacy of Brutality” a 12 anni ha ridefinito i miei parametri di approccio a tutta la musica ascoltata fino ad allora – punk e non. Glenn Danzig siede da quel giorno in cima al mio Olimpo, involontario (forse?) apriporta per una miriade di ascolti – dal punk alla wave, dal blues al rock‘n’roll – e per la commistione tra musica e cinema (horror).

TSOL, “Dance with Me”


Punk, hardcore, oscurità, composizione sempre tagliente e sopra le righe. Una summa di tutto ciò che c’è di bello in un disco perfetto, parte di un’era irripetibile. Più personali e ‘anarchici’ di altre band hardcore-punk californiane dello stesso periodo, forse perché con uno sguardo sempre volto al post-punk e alla wave inglese. Un punto di riferimento imprescindibile per i miei trascorsi musicali.

Nerorgasmo, “Passione Nera”


Una band unica che ha interpretato, in modo assolutamente non prolifico, il disagio autodistruttivo di un’Italia industriale ormai sparita dall’immaginario comune. La canzone è un manifesto nichilista lucido e senza precedenti. Quando mi sono addentrato nei territori compositivi di cui City Final è risultato, l’ho fatto sotto il moniker Passione Nera col desiderio di pagare tributo alla band di Torino, oltre che a un passato e a una musica che non ci sono più.

The Smiths, “There Is a Light that Never Goes Out”


Non ho capito l’importanza degli Smiths finché non mi sono imbattuto in “The Queen Is Dead”. Scelgo una delle loro canzoni più popolari, sottolineando l’importanza di parlare di musica pop di questo calibro. Su questo pezzo non c’è nessuno sfoggio di stile da parte del chitarrista/compositore Johnny Marr – sono Morrissey e gli arrangiamenti a farla da padrona a questo giro. Pezzo al contempo sarcastico e struggente.

Stuart A. Staples, “Goodbye to Old Friends”


Avrei potuto scegliere qualsiasi altra canzone dei Tindersticks, di cui Staples è cantante, invece credo che la canzone di apertura del suo secondo disco solista (“Leaving Songs”) sia una delle sue composizioni meglio riuscite. Adoro la semplicità della canzone, la valenza quasi universale del testo e la costruzione del pezzo ‘a strati’. Da diverse decadi, tra gli artisti migliori in circolazione – sempre genuino e ispirato.

Richard Hawley, “The Ocean”


Ho scoperto Hawley con questo pezzo quando uscì “Coles Corner”. Hawley è probabilmente una delle ragioni per le quali mi sia messo a scrivere pezzi per conto mio e per le quali abbia cercato rifugio a Sheffield, a un certo punto, dieci anni fa. Sono rimasto folgorato dall’abilità di mettere assieme il meglio di folk, country e pop orchestrale. Un’abilità compositiva e una sensibilità davvero fuori dal comune.

Scott Walker, “The Bridge”


Potrebbe essere qualsiasi altra canzone dei primi quattro dischi solisti in realtà. Scott Walker è colui che ha importato Jacques Brel nel mondo anglosassone; i suoi riarrangiamenti, riuscitissimi, mi hanno aiutato a crescere musicalmente e a scoprire il mondo della chanson francese. Un personaggio influente e affascinante (consigliatissimo il documentario “Scott Walker: 30 Century Man”), con una voce imponente. Apprezzo meno le derive sperimentali degli ultimi anni, ma la forte componente orchestrale dei dischi di fine anni ’60 è davvero da urlo.