ROLLING BLACKOUTS COASTAL FEVER, “Hope Downs” (Sub Pop, 2018)

Nell’ultimo decennio nel panorama mainstream il concetto di canzone pop con le chitarre è venuto meno, sempre più (re)legato a un sottobosco musicale underground, composto da band – Real Estate, Beach Fossils, Happyness, solo per fare qualche nome – lontane dai grandi numeri degli anni novanta, quando gruppi come Teenage Fanclub e Sloan venivano messi sotto contratto da una major come la Geffen. Un album come “Hope Downs” (2018), disco di debutto degli australiani Rolling Blackouts Coastal Fever, rappresenta però la possibilità di invertire questa tendenza e ritornare un passato, ormai remoto, quando la scrittura (guitar)pop – mai banale ma pur sempre orecchiabile, alla R.E.M. per intenderci – poteva ancora farsi spazio nell’airplay radiofonico ed entrare nella vita dei teenager di tutto il mondo.
Le dieci canzoni, contenute nell’esordio del gruppo di Melbourne, hanno – senz’altro – una caratteristica ben precisa e, spesso, peculiare della pop song : dietro le melodie solari e ritornelli scacciapensieri, si nascondono testi dal risvolto malinconico. È il caso, per esempio, di “Mainland”, canzone ispirata da una crisi dei profughi nel Mediterraneo, e che parla, come raccontato in diverse interviste da Tom Russo (uno dei tre chitarristi del gruppo), di “desiderio, disillusione, privilegio e di aggrapparsi all’amore come forma di scudo” .
I testi, quindi, partono volutamente dalla descrizione di bozzetti narrattivi ambientati in un microcosmo fittizio – legato però a storie vissute e personali – e arrivano a raffigurare immagini di vita universali : i protagonisti delle canzoni, piccoli caratteri della quotidianità, tratteggiano di riflesso la società a tutto tondo, in tutti i suoi aspetti socio-emotivi, dai due innamorati di “Time in Common” “Beside the water, your legs were next to mine/Time in common (Time in common, time in common)” – uniti dal tempo trascorso insieme alle paure di un uomo d’affari sempre più distaccato dalla realtà (“An Air Conditioned Man”); dall’amore ai tempi di un caffè freddo (“Cappuccino City”), “At the top of the hour, meet me at Cappuccino City/Roaches climbing the wall, coffee is cold/Service is shitty, in neon light you look so pretty” alla solitudine esistenzialista di “Talking Straight”, “I wanna know where the silence comes from/Where space originates”.
Piccole cartoline di racconti ma grandi canzoni: importanti perché uniscono il suono scintillante delle chitarre alla The Go-Betweens, Sunnyboys alla pop music intelligente nei suoni e nei testi.
Matura, di conseguenza, il songwriting dei primi due EP della band – “Talk Tight” (2016) e “French Press” (2017) – e i Rolling Blackouts Fever, che ruotano attorno a tre chitarristi e cantanti Fran Keaney, Joe White e Tom Russo , sembrano proprio aver trovato la giusta quadratura del cerchio: mantenere la spontaneità degli esordi e al contempo portare avanti la propria crescita musicale guardando alla migliore tradizione jangle pop.

77/100
(Monica Mazzoli)