ARCA, “Arca” (XL Recordings, 2017)

È sempre difficile prevedere le ambizioni volubili di un personaggio come Alejandro Ghersi. A nemmeno ventisette anni, ha già pubblicato due LP tutt’altro che facili, ma che l’hanno già consacrato come uno dei producer più in voga degli ultimi tempi. Ha già collaborato con Kanye West, Björk, FKA Twigs, Kelela, Dean Blunt e in un brano di “Endless” di Frank Ocean, riuscendo a dare quel suo tocco inconfondibile in fase di produzione. Sui palchi di tutto il mondo si è distinto in questi anni come uno dei performer elettronici più spettacolari e pirotecnici, con i suoi outfit goth/fetish e quei visual stranianti e disturbanti di Jesse Kanda ad accompagnare live e djset.

Tra aspirazioni tecnologiche e fascinazioni tradizionali, quasi primitive (dicotomia eloquente nel video di “Reverie”), in questo terzo album omonimo il giovane venezuelano trapiantato nell’East Coast americana, guarda avanti e mette in mostra senza filtri la sua voce. Il suo passo in avanti è innanzitutto uno sguardo al suo passato, quello da eccentrico cantautore “sintetico” dei suoi primi esperimenti musicali. Ai tempi non era ancora un’icona gay della scena newyorchese, era ancora a Caracas, il suo nome d’arte era Nuuro e scriveva bizzarri brani pop melensi con testi nella sua lingua madre e in inglese. Nel nuovo album, come anticipato dai due sorprendenti e spiazzanti primi estratti, ripesca questa sua anima da “cantautore”.
Parte del merito sarebbe di Björk che in un momento di cazzeggio e brani canticchiati in una macchina si accorge delle qualità vocali di Alejandro, convincendolo a riproporsi come vocalist nel nuovo album. Un’epifania decisiva. Il timbro di Arca delicato e androgino, imperfetto in quel mood molto naif e spontaneo, dà un’anima nuova alle composizioni minimali e sommesse di questo lavoro, la cui gestazione ha avuto un percorso molto complesso e accidentata, a partire dall’annuncio di inizio 2016 e i vari cambi di titolo.

Alla fine Ghersi opta per un album senza titolo, o omonimo a questo punto poca importa, e soprattutto decide, con coraggio, di cantare nella sua lingua d’origine, lo spagnolo. “Piel”, traccia d’apertura e prima anticipazione del disco, aveva messo subito le cose in chiaro: una liturgia dal retrogusto arcano che fa raggelare il sangue, con quella voce inquietante e sofferta che emerge da una nebbia di synth e droni. Così come “Anoche”, traccia numero due e seconda anticipazione, aveva confermato quei sentori, lasciando maggiore spazio alla battuta, sempre smorzata e spezzata nel suo stile. In “Reverie”, terzo anticipazione, ci si era avvicinati a quelle produzioni tipicamente Arca, ma il lirismo post-romantico e disperato della voce di Alejandro, lo trasfigura in una risposta da sciamano queer latino alle sinfonie metropolitane e anglosassoni di ANOHNI.

Come dimostrato, peraltro, subito dopo dall’ultima anticipazione prima dell’uscita del disco, “Desafio”, prima strizzata d’occhio vagamente dance e, a modo suo da club, dove è messo a fuoco questo “futurismo primitivo” dal fortissimo impatto emozionale. La voce sa essere disturbata, disturbante, ostile, avvolgente, calda e al tempo stesso glaciale e distaccata. Quando si defila, Arca torna a essere in tutto e per tutto l’arca “mutante” e “xen”, ancora apprezzato nell’abisso dark-industriale di “Entranas”. In “Saunter”, “Urchin” e soprattutto “Castration”, sfugge a queste nostalgie primitive e riabbraccia la tecnologia e quelle suggestioni techno molto potenti e contemporanee che l’hanno fatto apprezzare negli ultimi anni.
Tredici tracce, meno di quarantacinque minuti, un gusto classico che risale ai suoi studi di Schumann e Mendelssohn, la giusta alternanza tra invocazioni introspettive, storie d’amore e di rimpianti, break strumentali (le frustate di “Whip” come si evince dal titolo) e un pop minimale e destrutturato da togliere il fiato in in “Coraje”, “Fugaces” e “Miel”. In “Child”, traccia di chiusura, la voce scompare, inghiottita dai synth e si rimane definitivamente storditi e straziati da un’opera così affascinante e intensa, destinata a diventare una delle produzioni più significative di qui agli anni a venire.

89/100

(Piero Merola)