TIMBER TIMBRE, “Sincerely, Future Pollution” (City Slang, 2017)

Ad un uomo di cuore come Taylor Kirk non si può chiedere di rimanere impassibili di fronte alla bruttezza. Come pochi altri al mondo, nel corso degli anni ha dimostrato di saper raccontare con uno stile unico le complessità emotive dell’uomo, le sue depravazioni e le sue ossessioni. E se “Hot Dreams”, l’ultimo album pubblicato dai suoi Timber Timbre, affascinò per quel suo tono noir di scrivere delle pulsioni umane, questo nuovo “Sincerely, Future Pollution” compie un ulteriore e sorprendente passo avanti nella narrazione del lato oscuro presente in ognuno di noi.

In questo nuovo lavoro la band canadese si è spinta oltre i confini del corpo umano, concependo un album che non si può che definire “politico” – inteso come racconto di uomini, di persone, e del tempo che vivono. Quelle dentro “Sincerely, Future Pollution” non sono però canzoni di protesta, ma piuttosto allegorie distorte che raccontano gli anni distorti che stiamo vivendo. “2016 was a difficult time to observe”, ammette la stessa band presentando il disco. Un anno politicamente e socialmente complicato, greve, assurdo, la cui bruttezza i Timber Timbre provano a raccontare, riuscendo a conservare quell’affascinante gusto noir che ha contraddistinto i lavori precedenti.

In questo senso, si può dire che “Sincerely, Future Pollution” sia un album che ha molto a che fare con la rabbia. Se è racconto del nostro tempo, come non potrebbe essere un disco rabbioso? Ciò che rende questo lavoro non solo originale ma un’autentica (l’ennesima) prova di classe è però la creazione di una dimensione musicale apparentemente confortevole e distesa, che consente un approccio a prima vista più facile e immediato al disco.
Ironia sagace dal retrogusto amaro, per raccontare l’intossicazione culturale, politica e sociale che subiamo ogni giorno: è di questo che stiamo parlando, dell’utilizzo di melodie catchy e atmosfere funky per ballare sui racconti di tragedie. Prendiamo “Western Questions”, forse il pezzo centrale del disco: su una base quasi bossa nova di synth delicati e morbide percussioni Kirk canta “International witness protection through mass migration / The imminent surrender of land (…) A disappearance of a floating cathedral into the sewer (…) Western questions, desperate elections, campaign Halloween”. È il racconto delle distopie reali dell’Occidente: le migrazioni di persone, un coglione incattivito come Donald Trump che finisce per vincere le elezioni americane, il magma nero dei populismi che erutta e cola inesorabilmente sul nostro vissuto. Fatti, domande – “western questions” – a cui non si riesce a rispondere, e che Kirk racconta con quel suo gusto allegorico da crooner delle fogne. Un arguto ossimoro lirico-musicale che continua anche in altre tracce: in “Skin Tone” e in “Grifting”, ad esempio, con quel loro irresistibile approccio funky che fa da sfondo all’evocazione, ancora più nitida, del fantasma di Trump (“Wasted poker faces / Pilfering a nation”); o in “Floating Cathedral”, che su un tappeto di chitarre languide racconta della morte delle idolatrie (“The king of devotion / His death on Instagram”).

Nonostante questi inediti inserti più vicini di prima alla forma pop rimane anche, e per fortuna, tutto il mood noir e creepy che conosciamo: “Sewer Blues” e “Bleu Nuit” sono fatti di quel blu notte che ha contraddistinto “Hot Blues” e i suoi predecessori. Inseriti all’interno di questo album però assumono nuovo fascino e nuovo valore, contribuendo ad ampliare lo spettro delle eterogeneità musicali del disco. “Sincerely, Future Pollution” infatti può dirsi meno compatto musicalmente rispetto ai passati lavori, ma la sua verietà di atmosfere, canoni e stili è il segno di una band curiosa e attenta a non fossilizzarsi dentro i confini di un cliché prestabilito. Così in “Velvet Gloves & Spit” Kirk veste le panni di un nuovo Nick Cave, mentre nella title-track la band si cimenta in sorprendenti composizioni industrial-blues che potrebbero sembrare da Trent Reznor o Dirty Beaches, e infine “The Moment” con i suoi synth scintillanti di drammaticità intona un valzer dal gusto cinematografico molto vicino a Twin Peaks, prima di piegarsi su una coda tutta fatta di tastieroni e schitarrate glam.

Il racconto del caos dei nostri giorni malati non poteva essere più affascinante di così.

82/100

Enrico Stradi