ARCADE FIRE, “Reflektor” (Merge, 2013)

ArcadeFireReflektorNel 2004 si poteva prevedere di tutto. Ma nessuno avrebbe previsto che un’eccentrica orchestrina di bizzarri individui della porta accanto diventasse un fenomeno della portata degli Arcade Fire. Nonostante un physique du rôle poco da star, ma da inquietanti predicatori di chissà quale culto sfigato. Nonostante tre dischi senza troppi compromessi con la tradizione nordamericana, fatta eccezione per qualche momento Springsteen in “Neon Bible” e poi nella pastorale americana da generazione 2.0, “The Suburbs”. La band di Montreal non si fossilizza e prova a reinventarsi, ancora una volta. Non senza rischi. Già nell’ultimo album, malgrado gli entusiasmi iniziali, i trionfi di vendite e il Grammy, sovveniva il sospetto che l’abilità dei coniugi di Butler di comporre nuovi inni, si fosse gradualmente sbiadita. Si pensi alla percentuale di brani sul totale che sono rimasti scolpiti nell’immaginario collettivo da “Funeral” e “Neon Bible” e poi a quelli di “The Suburbs”. Il confronto non regge.

“Reflektor” è arrivato alla fine di una campagna di costruzione del marchio, dell’immagine e dell’hype assimilabile a quella di grandi fenomeni commerciali trasversali del calibro di Kanye West e Daft Punk. Le voci poi confermate di una collaborazione di lusso (James Murphy, LCD Soundsystem) sono servite a decifrare la possibile svolta degli Arcade Fire. La titletrack non ha smentito l’ipotesi di una virata in grande stile DFA: una cavalcata ballabilissima à la Hercules & Love Affair che al posto di Antony e dei vari figuranti del progetto ideato dal dj newyorkese Andy Butler (nessuna parentela con Win Butler degli Arcade Fire) ospita David Bowie, fan e vecchia conoscenza dei coniugi Butler. E poi a ruota, il secondo estratto ufficiale “Afterlife” a confermare i presagi, a dispetto di quel modo di cantare così tipico e di quelle linee vocali già sentite. “Afterlife” si può cantare e urlare, ma si può e si deve soprattutto ballare.

Non erano mancati momenti più sintetici nella loro carriera (si pensi a “Black Wave/Bad Vibrations” dal secondo, soprattutto “The Sprawl II” del terzo), ma più che la sintesi emerge il ritmo come architrave della composizione. Il crescendo, elemento cardine delle loro produzioni e il respiro epico dei break e dei ritornelli passano in secondo piano. “Reflektor” proietta in una dimensione più consapevole e matura i germogli esotici di “Haiti”, isola d’origine di Règine Chassagne. L’afrobeat, la disco degli albori, le folgorazioni world dei Talking Heads di David Byrne e la ricerca ritmica segnano i quasi 90 minuti di questo doppio album. Complesso come mai in passato, e variegato come la pletora di collaboratori (tra gli altri Owen Pallett, Sarah Neufeld, Marika-Anthony Shaw agli archi e Colin Stetson ai fiati) che hanno affiancano i co-produttori James Murphy e Markus Dravs, il produttore degli ultimi due LP. Tra giri di basso dance, chitarrine stridule da albori della wave, fascinazioni caraibiche, gli esiti sono del tutto inediti nei momenti più radicali, quali “Flashbulb Eyes”, la calipso “Here Comes The Night Time” e “You Already Know” che fa di “Reflektor” una risposta anni Duemila di “Sandinista” dei Clash. Più urbane e meno esotiche, invece, “We Exist” e “Joan Of Arc” meno pervase di quell’impatto sciamanico da Arcade Fire delle Antille. Hanno un impatto più cinematografico, classico, più fedele al mood tradizionale della band. Il rock va in sordina, relegato alla parentesi di “Normal Person”, erede più che mai di Neil Young, forse l’unico brano che non sarebbe risultato fuoriluogo in “The Suburbs”.

Con quell’intro così misteriosa da intermezzo teatrale in apertura di secondo disco (“Here Comes The Night Time II”, unico brano non prodotto da Murphy come “Flashbulb Eyes”), sembra quasi di scorgere una vaga traiettoria in “Reflektor”. Almeno dai titoli, con i rimandi mitologici a Euridice e Orfeo, già scelto quest’ultimo nella sua versione cinematografica nera del 1959 come video d’accompagnamento dello streaming gratuito mandato in rete. “Awful Sound (Oh Eurydice)”, in apertura, non si sgancia dallo spirito guida afrobeat, ma esplode in uno di quegli sfoghi solenni che sono da sempre nel loro DNA. Svolta liturgica nel secondo album? Neanche a dirlo, anche perché la già sentita “Afterlife” è stata piazzata proprio nel “lato b” di “Reflektor”. Ed ad anticiparla si infilano “It’s Never Over (Oh Orpheus)”, ineffabile ponte spazio-temporale tra Springsteen e DFA, e “Porno”, distillato synth-pop glaciale e distaccato come mai in passato (anche perché mai in passato qualcuno avrebbe immaginato un titolo del genere in un album degli Arcade Fire che tanto rassicurano le mamme). “Supersimmetry”, in chiusura, dovrebbe rappresentare ciò che “All My Friends” ha rappresentato per gli LCD Soundsystem. Ma è una ballad electro-wave sinuosa che prende forma da panorami post-romantici tra Bowie e New Order per decollare troppo tardi. E spegnersi forse troppo presto.

Gli Arcade Fire in un modo o nell’altro hanno sorpreso ancora una volta.
Serve solo un po’ di pazienza per metabolizzare il tutto. Dopo tre anni di attesa, è un sacrificio secondario, anche perché “Reflektor”, con il suo fascino esotico ed enigmatico, segna un autentico salto di qualità rispetto agli Arcade Fire suburbani del 2010.

77/100

(Piero Merola)

4 novembre