KURT VILE, “Wakin On A Pretty Daze” (Matador, 2013)

Kurt-Vile-Walkin-On-A-Pretty-DazeGaleotto fu il banjo. All’età di quattordici anni Kurt Vile comincia a suonare, riceve in regalo un banjo dal padre, appassionato di bluegrass. Un banjo non è esattamente il regalo agognato da un ragazzino quattordicenne, che tutt’al più si aspetta come regalo una chitarra elettrica, per far morire d’invidia gli amici. La vita è fatta di episodi, questo avvenimento segna profondamente la musica di Kurt Vile. Vile cresce a pane e folk americano, dal banjo passa alla chitarra acustica e a diciassette anni registra le prime cassettine, solo soletto nella sua stanza. Inizia a fare sul serio nel 2003 con la collaborazione con il chitarrista e amico Adam Granduciel, con il quale partecipa al progetto War on Drugs. L’intesa è perfetta tra i due, ma Vile sente la necessità di tentare la via solistica. Nel 2008 debutta con “Constant Hitmaker”, il titolo è ironico, Vile non rappresenta di certo il prototipo artistico del fabbricatore di hit, anche se, in tutta onestà, ogni tanto il nostro tira fuori dal cilindro magico canzoni pop perfette o quasi. Gli album successivi, “Childish Prodigy” (2009) e “Smoke ring for my halo” (2011), sono dischi di formazione artistico – creativa, Vile parte dal suo bagaglio culturale- il folk e la psichedelia ed riesce ad elaborare un stile personale, chiaro e sincero, diventa interprete di una musica sussurrata e soave. La chitarra acustica è il centro dell’universo, intorno al quale Vile costruisce un mondo tutto suo, fatto di dolci melodie e riverberi.

“Wakin on a pretty daze” è l’apice di questo percorso, le parti strumentali si dilatano, l’iniziale “Wakin on a pretty day”, “Too hard” e il brano di chiusura “Goldtone” durano o addirittura superano gli otto minuti. Vile, ormai sicuro dei propri mezzi, lascia libero il proprio io compositivo, lo fa vagare come se fosse un nomade senza meta alcuna. “Wakin on a pretty daze” è un viaggio americano, si conosce l’inizio, ma non la fine, è facile perdersi e non ritrovare più la via di ritorno. Poco importa, Kurt Vile, tuffandosi come a suo solito nel cantautorato americano e in certe sonorità alla Dream Syndicate (“KV Crimes”), ha costruito un’identità autoriale, facile da riconoscere: una summa tra approccio low-fi e tradizione rock, born in the USA.

80/100

(Monica Mazzoli)

12 maggio 2013

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