Ultraista (Nigel Godrich) + Zammuto, le poisson rouge, New York, 24 ottobre 2012

Finalmente Nigel Godrich, alchimista dei suoni dei Radiohead da “Ok Computer” in poi, si è messo in proprio. Ultraista è il nome del suo primo progetto personale che presenta come “nato dall’amore per afrobeat, arte e elettronica che ha tratto ispirazione dalla tequila”. Gli Ultraista, accento sulla “I” sono negli Usa per tre date esclusive (Los Angeles, San Francisco e appunto New York). Non siamo nel classico club di Brooklyn, ma a Manhattan, come succede alle band più grosse e rinomate. In quel Greenwich Village, un tempo crocevia di cantautori e leggende. Ora lo sciame di giovani e turisti va a caccia dell’abitazione di Carrie di Sex & The City, scagherebbe Lou Reed, ma riconoscerebbe qualsiasi comparsa di Gossip Girl.

Ecco Godrich al varco, dopo aver lavorato con Beck, Pavement, Paul McCartney, Divine Comedy, Air…e persino con Gianna Nannini, da assistente al mixaggio, nei primi anni Novanta. Momento decisivo di passaggio, fare da bassista nella band di Thom Yorke e Flea, gli Atoms For Peace. L’album d’esordio omonimo (o eponimo?) degli Ultraista è stato ingiustamente snobbato, non da Kalporz (vedi recensione da 81 su 100). Forse dal sottoscritto, per motivi di tempo. Se non altro si può cogliere l’occasione per immergersi direttamente dal vivo nelle tracce del Godrich “compositore”. Ma, andiamo con ordine.

Sono cambiate molte cose al Village, e la scena musicale si è spostata Brooklyn, al di là dell’East River, con un pugno di locali che resistono nel Lower East Side, a sud di ciò che resta della parte marcia di Greenwich, East Village. Nigel nel dubbio si aggira incappucciato nei dintorni di un dive dov’era solito suonare il clarinetto tutti i lunedì un certo Woody Allen. Teme di essere torturato dai fan? Non c’è rischio. Anche se, senza alcuna pubblicità, al Le Poisson Rouge arrivano oltre 500 appassionati. Dei Radiohead? Probabilmente, sì (il sottoscritto per esempio a fine concerto gli chiederà – invano – novità sull’immediato futuro dei cinque oxfordiani). Meno numerosi gli appassionati di un’altra band, questa del luogo: il duo sottovalutato e ormai compianto, The Books.

Rappresentato per metà dall’eccentrico Zammuto. Nick ha cognome e origini siciliani, l’album uscito quest’anno ricorda Caribou ma più robotico e alieno. Pitchfork ha gridato al miracolo, poi in scia tutti gli altri. La band ha un suono perfetto, le svisate sperimentali non superano i minutaggi. Il visual a bassa fedeltà molto autoironico e stupido fa la sua parte. “Groan Man”, “Don’t Cry”, il tribalismo da George Harrison cibernetico di “F U C-3PO”. Tra i momenti top delle clip: due sono di un trash spietato, dalla clip in loop di tale Pietro Zammuto, calciatore del Piacenza, che si guadagna un’espulsione in una partita di serie b e lo spot di un improbabile bastone per esercizi fisici, “The Stick”. Il momento post-rock finale, “Battle Hymn Of The Republic (a.k.a. The Greatest Autoharp Solo of All Time)” è più nostalgico con ad accompagnare l’incessante progressione degli accordi un irresistibile videotape anni Novanta delle innumerevoli cazzate fatte in casa, in giardino e in famiglia dai due Zammuto. Anche suo fratello è sul palco.

Ecco, gli Ultraista sono l’occasione per riassaporare quel gusto dell’anteprima. In tempi di advanced, leak e quant’altro ci si può godere i pezzi in presa quasi diretta, non avendo ascoltato che il singolo – la remixabilissima “Smalltalk” (infatti remixata da Four Tet presente in platea come altri volti più o meno noti). Alla voce Laura Bettinson, una voce normale e abbastanza standard. Ma le trame che tesse Godrich insieme a un altro atomo per la pace, Joey Waronker, altro produttore e turnista non da poco (R.E.M., Elliott Smith, Beck e mille altri) sono prive di sbavature. Ridurne la natura a electro-pop sarebbe riduttivo. In queste trame rese avvolgenti anche da perfidi effetti luce, il synth e il basso di Godrich mai prevalenti come ci si aspetterebbe. Ma, si percepisce quel gusto peculiare delle sue produzioni, soprattutto quelle che hanno trasformato – senza mai snaturare – i Radiohead. E che hanno sempre ridiscusso gli esperimenti di Beck ed Air.

L’ariosa “Bad Insect” che apre i cinquanta minuti di show, dà l’idea di una Grimes più matura e con meno hype (vedi anche “Our Song”). “Gold Dayz” fa capire il senso degli ultimi divisivi Radiohead. Come scriveva Bardelli, Godrich non è un produttore rock. La forma canzone, il ritornello, la struttura resta secondaria rispetto all’andatura, alla ritmica, cosa che i più accaniti detrattori degli ultimi Radiohead sembrano voler ignorare. “Wash It Over” e “Static Light” sono un’accoppiata da alienazione. Di “Strange Formula” basterebbe dire che è stata apprezzata e remixata da sua maestà David Lynch. Non sfigurerebbe in uno dei suoi film. Fatale, convulsa, inquieta. Godrich, l’uomo che con i Greenwood ha dato un’impronta kraut alla band di “The Bends” reinterpreta questa elettronica dai risvolti lounge in un filo rosso che dalle sperimentazioni ambientali lambisce i nuovi Portishead. “Easier”, evanescente, fugace, incompiuta è la conclusione perfetta. Da coito interrotto.

(Piero Merola)

24 Novembre 2012

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