CMJ Music Marathon 2012, New York, 19-20 ottobre (parte 3)


Pitchfork non avrebbe nulla a che fare con la CMJ, ma monopolizza una serata. In un club che non è un club, il Villain è uno “spazio”, un ex-magazzino dismesso. Due ore prima dell’ingresso (gratuito) la fila occupa due block. Unico requisito, avere più di 21 anni e si capirà presto il motivo. E come un evento dalla portata hollywoodiana ci si può addirittura permettere di rivoluzionare la facciata del magazzino con una tinteggiatura nera e in bianco i nomi che compongono la line-up.

Tra gli sponsor della serata una vodka svedese, la Svedka che come requisito ha quello di essere cool prima ancora di essere lanciata. Ha scelto Pitchfork per promuoversi, come slogan ha “votata la miglior birra del 2033”. E soprattutto per il party non-ufficiale del Villain decide di offrire da bere per tutta la sera. Illimitatamente per i 650 “privilegiati ammessi. Il tempo di assaggiare le prime due svedka che guadagna il palco la prima “star” della serata. Angel Haze è nata nel 1991, si è candidata a nuova Nicki Minaj dell’underground, con la differenza che ha un aspetto più accattivante e rappa su basi minimali e meno plastiche.

La ragazzaccia di Detroit ha un bell’aspetto, “New York” e “Werking Girls” con il suo video folgorante, sono già due anthem. Il nuovo album conferma le grandi potenzialità della M.I.A. di Detroit che dal vivo con una platea già calda e “preparata” incendia il tardo pomeriggio del Villain.
Della qualità di Hundred Waters e Le1f abbiamo già parlato, avendoli incontrati in altri eventi raccontati nelle due precedenti puntate di questo report-maratona (prima parte e seconda parte). La differenza è che i pitchforkiani conoscono tutte le canzoni e reagiscono nel modo migliore a tutti i pezzi, come se veramente li conoscessero dal primo all’ultimo. Tutte le band chiamate dalla potentissima webzine di Chicago sono state incensate dai suoi recensori. E questa location, intima, in mattoni fa il resto. Insieme alla svedka ovviamente.

E tocca un altro nome attesissimo, Daughn Gibson. Ex-membro di un collettivo stoner-metal, è un James Blake versione motociclista. Per atmosfere e parvenze prive di quel tocco lieve e posato. 2 step Americana, gli XX che incontrano le praterie del Midwest. Una miscela molto originale e notturna, forse avrebbe meritato un orario più tardo con un pubblico così caldo. La bassa fedeltà del suo ottimo album “All Hell” resiste eccome alla prova live.

La scena di Pitchfork è eterogenea come il pubblico che continua ad approfondire il sapore della Svedka. Così si va dal rap al pop d’avanguardia, per arrivare a un rockettino indie con influssi vagamente punk, ma godibile. Il trio dei Merchandise è formato da tre ragazzi di Tampa, Florida. Vogliono fare i duri, ma non lo sono. Ottima transizione per i Metz, di cui abbiamo già parlato, e che non ci si stancherà di definire uno dei live-act più devastanti di quest’anno. La posata ed educata platea si trasforma in un cerchio della morte con scene di pogo d’altri tempi. Stesso discorsi per i DIIV, già visti ovunque, nella parte dei profeti in patria.

Holy Other e la sua elettronica fine e introspettiva aiuta a fare un pausa dopo i METZ. Unico ospite straniero, il giovane mancuniano ha goduto di un 8.0 su Pitchfork e anche senza essere incluso nell’ambitissima sezione BEST NEW MUSIC si è guadagnato i riflettori anche oltreoceano. Meritatamente. Lui ricorda più direttamente James Blake, meno damerino e più vicino al primo Blake, quello sospeso tra garage e sprazzi ambient. A partire dal look, niente camicetta e giacca, ma una felpona anni Novanta, a tema con la serata e il quartiere. La risposta inglese a How To Dress Well, nonostante il livello etilico generale sia sopra ai livelli di guardia, avvolge di nebbia il Villain.

Snobbare Pitchfork è come snobbare qualcosa di snob, poco male, si è soliti giustificarsi. Bisognerebbe trovarsi nel teatrino di Joey Bada$$ per ricredersi e godersi questo melting pot di generi molto distanti che come filo conduttore hanno solo le camicie a scacchi e seguaci che vanno dai metallari alle tipe indiane vestite da capo a piedi Urban Outfitters.

I Death Grips, la prova finale, a notte fonda. Rap rumoroso e sudato. MC Ride è un tamarro, mostrerebbe i muscoli in tutti i sensi, ma quelle sue fattezze da profeta nero suburbano rendono magnetica la devastante chiusura del trio di Sacramento che vomita fiele per quaranta minuti con il meglio di “The Money Store”. Uscito in primavera è una produzione senza compromessi e dissonante come poche se ne sentono nel genere. Tra i dischi dell’anno, senza se e senza ma. E nonostante l’abuso di basi, (ma fa parte della categoria) il live è la degna conclusione.
Si ha giusto il tempo per farsi spintonare a caso da un buttafuori dall’aspetto di un bifolco del Nebraska e via nella notte. Anche questo fa parte dell’esperienza.

Dove non arriva Pitchfork, arriva BrooklynVegan. Nato come blog di un vegano di Brooklyn che ora si avvale dell’aiuto di tre collaboratori, è la bibbia degli eventi newyorkesi degni di nota. Brooklyn ma non solo, concerti, festival, eventi speciali, mostre, dj-set, secret-party. Chi non è mai stato a un evento segnalato dal blog può dire di essersi parte il 90% delle cose veramente interessanti e newyorkesi organizzate in giro. Una di queste è la due-giorni di maratona nella maratona al Public Assembly. Bar da fuori anonimo che in realtà nel suo aspetto da saloon ha due sale-concerti. Per l’occasione BrooklynVegan e i suoi sponsor offrono una magica bevanda anti-postumi (un nome una garanzia, MERCY), rum e PBR gratis (rigorosamente la birra hipster del Wisconsin). E soprattutto tatuaggi gratis. Per una combinazione pericolosissima di open bar e open tattoo. Una dozzina di nomi meno noti e pubblicizzati suonano per il blog.



In ordine sparso tra i due palchi, non mancheranno nemmeno qui gli Hundred Waters, ma ci si concentra su altri nomi extra-americani, come ad esempio gli unici rappresentanti danesi, i Choir Of Young Believers che riscaldano la platea con il loro pop da camera, orchestrale e cinematografico. Nel palco minore, si ebiscono nell’ordine gli Opossom, duo neo-zelandese electro-pop vagamente naif ed MGMT, un altro duo, folk down-tempo e un po’ twinpeaksiano, le californiane Tashaki Miyaki con una vocalist batterista di cui ci si innamora all’istante. Fortunato il chitarrista che le accompagna. Vellutate, sognanti. Sono le dodici e mezzo, ma sembra già notte inoltrata, da qualche parte nel deserto della Sierra.

Mentre nel palco maggiore aprono open-bar e maratona cinque sbarbatelli di Chicago (The Orwells), stile Beach Fossils ma più puliti e rassicuranti non solo come immagine. Che invece è più da rocker, pseudo-dannati.
Nonostante il frontman esagitato. Più navigata una delle band che tuttora tiene alta la bandiera del sound newyorkese caro ai Sonic Youth, gli Hunters sono spietati, ammiccano molto anche al post-punk con la loro cantante molto riot grrrl fuori tempo limite col suo capello ossigenato rosa shocking. Eppure tra chitarre ritmiche affilate e buona presenza scenica si confermano una delle band-live più affermate della Brooklyn più rock. Vedi anche Screaming Females.

E poi di lì a venire gli Eternal Summers, altro trio un po’ power-pop, un po’ indie americano anni Novanta. La sua voce non può che ricordare i Blonde Redhead per le comuni origini, ma piuttosto loro si avvicinano per lo stesso motivo agli Asobi Seksu. Il loro album è onesto, dal vivo è meno da indie-pop sbriluccicante effeminato, diventa più teso e sonico. A tratti lambendo le cantilene metropolitane dei Pixies.

Fanno tutt’altro gli ineffabili Sinkane messi in mezzo tra i due act più energici delle prime tre ore. Vestit come personaggi di Miami Vice, filiazione degli Yeasayer, rigorosamente DFA. Gli ingredienti ci sono tutti. Il loro è un mix di influenze e di etnie per un’elettronica molto calda tra riferimenti funk e world. L’impatto iniziale è difficile, ma diventano presto una scheggia impazzita. Qualcuno si è ripreso dal giorno prima e inizia a muoversi. Il filo conduttore è spesso: artisti carichi che ballano in platea, platea intenta a soffermarsi sull’open-bar. Le luci basse del Public Assembly conciliano una certa calma interiore. Potrebbe essere qualsiasi ora. C’è luce solo nella zona-tatuaggi. Per loro fortuna.
Tutto così improbabile ed eterogeneo. L’open-bar che prosegue dalle dodici coinvolge nuovi partecipanti che affollano la North 6th all’altezza della Bedford, il cuore di Williamsburg. Da segnalare i Caveman, nome nuovo meno cool, dall’appeal poco hipster, ma che prova a infilarsi sulla scia di National, The Walkmen e band dai suoni più “maturi” tra quelle che hanno marchiato a fuoco la scena degli anni Duemila. Loro hanno le canzoni più che gli abiti bizzarri o i suoni furbi, e hanno un buon songwriting. In attesa di un riscontro valido su LP, colpiscono non poco, nonostante qualche momento troppo classic. Kitty Pryde è l’opposto: la ragazza ha molto di questo tipo di appeal, ma serve solo a ricordarci che una bionda di Los Angeles può fare la rapper, anche se non è conciata come le star che un tempo affollavano Mtv. Molto carisma, discreta la sbronza, ci ricorda che il rap non manca mai nei festival indie di New York.

E infatti nell’altra sala sguinzagliano subito Ratking, Mr. Muthafuckin’ eXquire e soprattutto l’eccellente Gavin Mays da Memphis, aka Cities Aviv di gran lunga più raffinato e dal lessico più elevato. Il solito continuo manifestarsi di ospiti che non si capisce in che misura siano collaboratori. E poi le invettive, il freestyle fatto da gente che non si sente del ghetto né ha mai preso una pistola in mano.

La New York indipendente si scalda e balla molto di più per questi simpatici fenomeni da baraccone che per i classici nomi elettronici. E l’ego di costoro, pagliacci ma bravissimi, si gonfia offrendo prestazioni irresistibili E succede, loro sono generalmente tutti giovanissimi, alcuni particolarmente brutti esteticamente, ma assatanati.

Creano subito una cappa di fumo da grandi eventi e sfidano il protagonista del palco principale. Sono solo le cinque, ma tutti sembrano essere qui per Miguel. Tamarro a vedersi, estetica tamarra anche nella grafica delle sue produzioni. Viene dalla West Coast e fondamentalmente fa r’n’b. Ma Pitchfork l’ha importato nel variegato mondo underground. E, per quanto sia obiettivamente bravo, a tratti sfora in territori un po’ sinistri. Non si pensi ai falsetti di Frank Ocean, qui è veramente r’n’b con tanto di movenze un po’ latine. Le doti non gli mancano, “Kaleidoscope Dream” suona anche bene come album finché non lo vedi così conciato col capello incerato. Però è comunque ovazione anche tra vegani e non di Brooklyn. Dopo il rap, anche l’r’n’b diventa indie. A suo modo.
E “Use Me” che può diventare una nuova “Kids”. Tempi che cambiano…

(Piero Merola)

11 Novembre 2012

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