Queens Of The Stone Age, concerto a Stadpark Freilichtbuhne, Amburgo (25 agosto 2010).

Quando ormai ero convinto di avere ben poche occasioni di vedere su palco i Queens Of The Stone Age, la fortuita combinazione di un Interrail quasi fuori tempo massimo e di scelte arbitrarie riguardo le destinazioni ha permesso che mi trovassi nel pieno dell’ hic et nunc incriminato. Prevedibile il soldout, meno prevedibile il farsi avanti di Guilhem, studente francese, con un biglietto in più disposto a vendermelo al prezzo di botteghino proprio mentre mi stavo decidendo a spacciarmi per giornalista musicale influente (“Lei non sa chi sono io…”, chissà mai che funzioni in Germania. Da noi no).

Per farla breve, riesco a entrare e col francese suddetto scatta una gara a chi offre più birra, mentre sul palco si fa avanti Chris Goss con una cosa che sembra un incrocio tra un ukulele e una busta del latte. Piacevole constatare soprattutto l’influsso sul figliol prodigo che ne avrebbe presto preso il posto sul palco.
L’arena erbosa e alberata comincia intanto a riempirsi di pubblico biondo e noi due, come da pregiudizio, finiamo per diventare i più bassi e i più scuri tra la folla. Ma se posso lamentarmi della statura dei teutoni che da tanta parte dello show il mio guardo hanno escluso, nulla posso avere da ridire sulle vikinghe inferragliate sparse tra di essi, la più provocante delle quali, incrociata qualche ora dopo mentre passeggiava nella via a luci rosse di St. Pauli, alberga ancora in una stanzetta speciale nel mio cranio.

Siamo dunque intorno alle ore venti (poco oltre, a dire il vero) e il sole ancora non è tramontato tra gli alberi alle nostre spalle quando le Regine salgono sul palco e si sistemano, lisce come modelli di case d’abbigliamento svedesi a buon mercato, mentre il Capo, come da rituale r’n’r, ci tiene a fare il suo esordio con un bicchiere di vino sistemato a fianco di una bottiglia di vetro contenente un liquido trasparente (nessun bookmaker inglese punterebbe sull’acqua). Segni di alcoolismo strisciante si notano già da subito, quando al fulminante avvio dei motori con “Feel Good Hit Of The Summer” al nostro nuovo Elvis cade quasi la chitarra di mano. Non a caso mi appello al Padre degli Dei. Sarà per l’ancheggiare costante, sarà per la voce calda e sexy (a giudicare dall’umido delle ragazze presenti) o forse per quel ciuffo che fa bella mostra di sé sulla bionda chioma, ma Joshua Homme sembra sempre più il discendente diretto del ragazzo di Memphis. E il fatto che panza e giacche di pelle bianca non abbiano ancora fatto la loro comparsa ci lascia ben sperare di avere ancora qualche anno di carriera davanti.

Intanto la scaletta va avanti, favorendo gli ultimi due album, irrobustiti dalla resa live, con ovvie inclusioni dai due capolavori precedenti e con la criminale esclusione del primo. La scelta dei brani lascia capire le intenzioni: una veloce esibizione di brani rock’n’roll facilmente riconoscibili e dall’effetto sicuro. Così appare, ovviamente, “Songs for The Dead” a levare la terra da sotto i piedi, ma non “The Sky Is Falling” a piazzarti definitivamente per aria, mentre l’assenza anche di “Better Living Through Chemistry” e di qualunque altra istanza psichedelica grida vendetta.
Niente da dire però su spingardate ipercinetiche come “Little Sister” e “Sick Sick Sick”, tra i singoli migliori della band. Tanto più che l’entusiasmo del pubblico attorno viene dimostrato da un pogo non particolarmente violento quanto piuttosto rigoroso e metodico (siamo in Germania, of course).
Il fatto che poi, a distanza di due anni dall’ultimo disco, non sia stato presentato nemmeno un nuovo brano getta un’ombra inquietante sulla performance.

Sarò io a pensar male, ma quando alle nove e mezza di sera il gruppo lascia il palco col sorriso, mentre una parte minoritaria del pubblico resta sbigottita (“Ma come, di già?”), con anche qualche dito medio levato al cielo, l’idea di essere stati buggerati si fa avanti. Troppo facile per delle vecchie volpi infilare un pezzo dopo l’altro e farci una collana seducente e abbagliante quanto basta per non far vedere un empasse di fondo. Ore nove e trentacinque, gli amplificatori sono spenti, il pubblico si dilegua e la pagnotta è portata a casa. Meglio che lavorare.

(Lorenzo Centini)

Collegamenti su Kalporz:

Queens Of The Stone Age Era Vulgaris
Queens Of The Stone Age Lullabies to Paralyze
Queens Of The Stone Age Songs For The Deaf
Queens Of The Stone Age Rated-R

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