NICHELODEON, Cinemanemico (autoprodotto, 2008)

Provate a pensare un ideale punto d’incontro fra avanguardie musicali del Novecento, tradizione classica colta e art-rock anni settanta; ascoltate il primo disco, autoprodotto, dei Nichelodeon; infine sovrapponete le due immagini, quella ideale e quella reale. Siamo sicuri che in molte parti combaceranno. Il quartetto formato da Claudio Milano, voce, Francesco Zago, chitarra, Maurizio Fasoli, pianoforte, Riccardo Di Paola, synth, colpisce immediatamente l’orecchio, malgrado uno stile rigorosamente anti-pop.

Delle sinestesie della performance live dal titolo “La Stanza Suona Ciò Che Non Vedo”, “Cinemanemico” perde ovviamente la dimensione visiva. Eppure funziona ugualmente, grazie ad una teatralità spiccata ma non invasiva, mai pesante, giocata sul dialogo fra pianoforte e interferenze di sinth. Tutto il disco trasuda cultura musicale a 360 gradi ma è tutt’altro che uno sterile esercizio di stile. Le influenze sono sicuramente molte, stratificate e ben sedimentate, nessuna esclusiva e tutte reinterpretate: le evoluzioni canore di Milano (autore della maggior parte dei brani), pur non ignorando l’ingombrante modello di Demetrio Stratos, si confrontano brillantemente con alcune grandi voci del rock progressivo: dal pathos di Francesco Di Giacomo ai vocalizzi di Robert Wyatt passando per le spigolosità di un Peter Hammill e i toni caldi di un Ian Anderson (“Flower Of Innocence”). In bell’equilibrio fra acustico e elettronico, fra melodia e dissonanza, musica colta e jazz (qualche lampo mehldauviano in “Ciò Che Rimane”), formale e informale, quest’opera prima suona decisamente già matura. La distensione melodica non è quasi mai assoluta, definitiva o fine a se stessa: come nelle opere migliori germoglia da un conflitto armonico, in un equilibrio fra generi in chiave minimalista davvero riuscita.

L’inizio è di quelli minacciosi: “Fame”, caratterizzata dalla chitarra distorta, è il pezzo forse più aggressivo, anche nel testo, e allo stesso tempo quello più intessuto di reminiscenze post-psichedeliche; ma già con “La Mosca Stregata”, breve strumentale, il piano conquista il campo per non abbandonarlo che sporadicamente. La dimensione del recital, tipica di Nichelodeon, emerge vigorosamente prima nella interpretazione della famosa aria haendeliana “Lascia Ch’Io Pianga” (dall’opera “Rinaldo”), quintessenza del teatro sentimentale barocco, affrontata non senza un pizzico di opportuna ironia, poi in “Malamore E La Luna”, dall’andamento liederistico accesamente romantico, sostanzialmente bissato da “Amanti In Guerra”. New wave e kraut-rock fanno capolino frequentemente, specialmente in “La Torre Più Alta”, lungo e raffinato pezzo di etno-elettronica, carico di virtuosismi vocali, con intermezzo più lirico. Davvero onirico l’inserimento di letture da “La Scienza In Cucina E L’Arte Di Mangiar Bene” di Pellegrino Artusi: recitati su un tappeto di sintetizzatore dalle arcane evocazioni il capitolo sugli gnocchi e quello sul “budino gabinetto” creano un effetto straniante che rende “Cinemanemico” ancora più alieno: alieno nella mancanza assoluta di sezione ritmica, alieno nella sua alterità rispetto a ogni rigida classificazione.

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