ELIZABETH MOEN, “Live at Lincoln Hall” (autoprodotto, 2024)

Il 2424 North Lincoln Avenue è un edificio a Lincoln Park, a Chicago, che ospita la Lincoln Hall, una sala concerti da 500 posti. Elizabeth Moen è quasi una resident là, visto che ci suona spesso. Questa confidenza con il luogo l’ha portata a pubblicare come disco live la sua ultima esibizione lo scorso 4 novembre, che è portentosa. Personalmente era da un bel po’ di tempo che non sentivo un album dal vivo così convinto e partecipato, anche se è vero che è un format che è andato in disuso per cui non sono così tante le performance live che vengono immortalate nella discografia degli artisti. La verità è che bisogna essere bravi dal vivo, se si vuole pubblicarlo, e Elizabeth Moen lo è davvero: sa passare in maniera facilissima da un alt-soul-country a un indie-rock deciso (ascoltarsi per esempio l’impressionante “Emotionally Available”, che potrebbe richiamare alla mente cambi di intensità che era solita la band di Jeff Buckley) sempre supportando l’interpretazione con una vocalità da paura.

Chitarrista autodidatta, la Moen ha scritto le sue prime canzoni mentre studiava all’Università dell’Iowa a Iowa City e pubblicato lì i suoi primi album autoprodotti, in un ambiente artisticamente florido. Abbandonando Iowa City, è andata in tournée per due anni attraverso gli Stati Uniti, il Regno Unito e l’Unione Europea, fino a fare di Chicago la sua location base. E con “Live at Lincoln Hall” è come se rendesse omaggio alla città che l’ha accolta.

Sia che offra se stessa solo voce e chitarra (come nell’iniziale “Songbird”) o con la band (un’ulteriore coralità è data anche dalla voce maschile presente in “Is Heaven Just a Waiting Room”), l’alone che accompagna la sua esibizione è quello di una grande artista e altrettanto brava performer. Il suo stile di scrittura alle volte si manifesta come una sorta di “flusso di coscienza” che la fa avvicinare a Courtney Barnett (“Purple Flowers”) seppur sempre da un lato orgogliosamente americana, ma per la gran parte si evidenzia ancora di più nelle sue doti di modulazione vocale, tra grinta e dolcezza soul, di brani come “Empty Bottles” e “Sorry That I Love You”.

Un album che vi porterà proprio lì, sotto il palco, a godere di un’esibizione da occhi chiusi, fatta col cuore.

79/100

(Paolo Bardelli)