REMO REMOTTI, Canottiere (ConcertOne, 2005)

Chi scrive aspettava da tempo l’edizione antologica delle canzoni di Remo Remotti, ma forse sarebbe il caso di fare alcune specificazioni sull’essere umano Remo Remotti, prima ancora che sul cantante. Poeta, scrittore, attore teatrale e cinematografico, pittore (con opere esposte alla Biennale di Venezia e alla Berlinale) e, si scopre nelle note interne della confezione del cd, anche canottiere. Rigorosamente sul greto del Tevere e rigorosamente in compagnia di personaggi tutt’altro che di prima vista. Perché è qui la grandezza di Remo Remotti, la sua capacità innata e folle di essere parte della scena meno visibile – meno volutamente visibile, perché gli onori della gloria sono vacui e di facciata -; quella grandezza che lo fa apparire sanamente pasoliniano laddove buona parte del mondo artistico romano gioca semplicemente a esserlo.

Quella grandezza che lo mette accanto a un altro emerito figlio di Roma come il rimpianto Nico D’Alessandria, e che al di là delle partecipazioni ai film di Marco Bellocchio (“Salto nel vuoto”), Mauro Bolognini (“La signora delle camelie”) e Franco Zeffirelli (nell’altamente mediocre “Otello”) ce lo fa ricordare eternamente nell’eccezionale Freud messo in scena in “Sogni d’oro” di Nanni Moretti – con il quale gira anche “Bianca” e “Palombella rossa” -, nei film di Romano Scavolini (“A mosca cieca” e “La prova generale”), nel divertente “La terrazza” di Ettore Scola, nel bellissimo cortometraggio “Il pranzo onirico” di Eros Puglielli. Perché è lì che esce fuori l’anima così popolare e al contempo anarcoide di Remotti, intenzionato a dire tutto sempre in faccia, con una strafottenza e un senso di sottile disprezzo che forse solo i romani sanno avere, e che dimostra in pieno la canzone che apre “Canottiere”; “Roma addio”, musicata dai Recycle e narrata da Remo – ah sì, dimenticavo…i brani sono tutti parlati – è la messa in parola di un rapporto di amore e odio continuo e ineluttabile verso una città colma di difetti eppure che appare impossibile (almeno per chi c’è nato) non amare alla follia: dentro l’addio alla Roma degli anni ’50, che comunque in parte resiste in quei quartieri dove le ondate di migrazione non hanno distrutto le radici popolari, a Garbatella come a Testaccio, a Centocelle come al Mandrione, c’è tutta la capitale nelle sue debolezze e nelle sue peculiarità dalla “Roma del volemose bene e annamo avanti” a quella “degli appuntamenti ai quali non si arriva mai puntuali” ma anche e soprattutto “quella Roma delle suore, dei frati, dei preti, dei gatti”, la Roma che “è mejo de Milano”, dei mille bottegai, delle fontanelle, degli ex voto, dove chiunque è pronto a chiederti “che me dai ‘na sigaretta?”.

Uno dei più acuti e coinvolgenti sfoghi letterari – ma anche puramente corporei, con quella voce che va verso l’ineluttabile raucedine come un urlo infinito – e al contempo la più delicata e struggente delle dichiarazioni d’amore. Perché solo chi ama qualcosa riesce a descriverla con una tale chirurgica precisione. Dispiacerebbe dover tralasciare il resto, con lo straordinario monologo “Noi non riusciamo più a vedere” dedicato all’impossibilità della verginità della vista nella nostra società (“una mucca, signori, una mucca è Segantini, una pecora è Buñuel, una capra è Picasso…un cavallo, non ricordo di che colore, un cavallo dei carabinieri è Fattori”) e con l’universo femminile scandagliato attraverso i personaggi di Silvana, Rosa (“sembravi Rosa Luxemburg e mi amavi perché dicevi che io assomigliavo a Carlo Marx”), Rossella, Antonella e Barbara, ma certo è che l’apertura – e chiusura – affidata a “Roma addio” sono segnali inequivocabili della centralità di un pezzo di così appassionata classe all’interno dell’opera di Remo Remotti. Che è un piacere vedere pubblicato a livello nazionale, nella speranza che salga definitivamente alla ribalta, anche se in tarda età. Perché Remotti è uno che dell’età se n’è sempre bellamente fregato e, forse, è riuscito a fregare anche l’età stessa, se è vero che è tutt’ora possibile incrociarlo nei locali di Roma – il ricordo di un suo show pochi anni fa alla Locanda Atlantide di San Lorenzo è ben piantato nella mia testa -, sempre con la sua franchezza e la romanità che gli si legge in faccia (e pensare che in una puntata di “Derrick” faceva il napoletano!).

Quella romanità delle ciocie, dei mortanguerieri, delle mosciarelle, dei supplì, di Ninetto er regazzetto der Tufello, quella romanità che è possibile ritrovare – forse addirittura suo malgrado – in questo “Canottiere” di Remo Remotti. Che non sarà mai probabilmente l’album dell’anno e non è neanche corretto considerare solo ed esclusivamente un lavoro musicale, ma che consiglio caldamente a tutti. Per poter entrare in contatto con un personaggio oscuro dell’arte italiana (estremamente colto e popolare allo stesso tempo), e per poterlo fare prima di essere costretti a dire “peccato averlo conosciuto solo ora”.

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