DEVENDRA BANHART, Nino Rojo (Young God Records, 2004)

Il primo pensiero che si è installato nella mente dei musicofili alla notizia dell’uscita di nuovo materiale in studio per Devendra Banhart, mentre l’eco dei peana innalzati nei suoi confronti per quel capolavoro che risponde al nome di “Rejoicing in the Hands” ancora non si erano esauriti, è stato quello di essere costretti da subito a ridimensionare il nome del giovane autore.

Il punto è che chi immaginava “Niño Rojo” come un album di scarti ha completamente deragliato dai binari della ragionevolezza: questo secondo lavoro in un anno è solo il fratello gemello del precedente, niente di più e niente di meno. E presenta un Banhart sempre più vicino alle radici del suono americano, non più impegnato in sarabande musicali come accadeva ad esempio nel crescendo da togliere il fiato di “This Beard is for Siobahn”, ma interessato a una strumentazione più scarna. Spesso e volentieri il ragazzo si accompagna esclusivamente con la chitarra acustica, di quando in quando si fa largo un violino come nell’estatico splendore di “Water May Walk”, bucolico istante scandito anche dal leggero tintinnio di uno xilofono. Pur trascinati nella dimensione sognante che fa di questo cantautore contemporaneamente un araldo, un trovatore e un asceta, è impossibile non rendersi conto di come la sua voce particolare diventi sempre più un sussurro, e tutto l’album sia in fin dei conti una ninna nanna perpetua.

Se “Rejoicing in the Hands” è il ragazzino scatenato, pazzoide e iperattivo che manda al manicomio i malcapitati genitori, “Niño Rojo” è il fratellino timido, estremamente romantico ma ancora impacciato, quello che non ha il coraggio di urlare le parole al mondo e preferisce sussurrarsele facendo sua complice la notte. Album notturno, dunque, e pacificante che non disdegna comunque improvvise bizzarrie, come l’inaspettata tromba che fa capolino nella saltellante “We All Know” e soprattutto il dondolarsi ubriaco della conclusiva “Electric Heart” in odore di ragtime. Il resto è semplicemente Devendra Banhart, ed è stupefacente come questo ragazzo sia riuscito a delineare un universo così composito e al contempo così personale nel giro di un mucchietto di mesi, senza perdere neanche un granello della sua freschezza e senza lasciarsi condizionare da chicchessia, ma proseguendo cocciuto per la sua strada.

In “Niño Rojo”, oramai fattosi uomo e fortificatosi anche di fronte al convito di pietra della critica, Devendra si diverte a giocare con i satelliti artistici che gli gravitano intorno, dai Vetiver alla compagna di vita Bianca Casady delle Cocorosie fino al padre putativo, colui che gli ha dato fiducia e gli ha offerto uno spazio nella sua attività produttiva: Michael Gira. Siamo quasi alla fine dell’anno, “Rejoicing in the Hands” continua senza problemi a sostare sull’immaginario podio dei meriti artistici – e nel posto più elevato -, nessuno si stupisca se il suo fratello più timido finirà per trovare spazio qualche posizione più in basso.

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