MAMBASSA, Mambassa (Mescal / Sony, 2004)

Il quarto disco dei braidesi Mambassa suona come un perfetto riassunto di quanto la band ha fatto finora: timidi ricordi soul, rock ora più morbido ora più tirato, fino al muro di malinconia della maggior parte di queste canzoni.

Che il gruppo sia maturato moltissimo è indiscutibile, ma c’è qualcosa che non funziona in queste dieci tracce: è come se il suono fosse stato fin troppo ripulito, reso omogeneo, fatto per scivolare nelle orecchie senza infastidire. Si parte molto bene con il blue eyed soul di “Una storia chiusa”, una melodia attorcigliata ad un falsetto traballante, e con il riff avvolgente e introverso di “L’uomo di Atlantide”, ma da lì in poi si fatica a capire che cosa questo disco voglia essere: se vuole aggredire, non lo fa con sufficiente convinzione (“Canto nel sonno”, “Rimpianto stereo”); se vuole essere malinconico, invece, eccede e sembra quasi compiacersene (tranne che nelle buone “Stop” – resa accattivante da una bella voce femminile – e dal singolo “L’antidoto”, con quel suo lento incedere di pianoforte).

Il risultato è che questo “Mambassa” finisce per non convincere totalmente, e non aiutano certo alcuni testi fin troppo semplicistici (difficile credere che “Canzone d’odio” l’abbia scritta qualcuno che ha anche pubblicato un libro di racconti); non è tanto la qualità delle canzoni a mancare, ma probabilmente l’intervento in fase di produzione di Davey Ray Moor (già nei Cousteau) ha appiattito troppo i suoni, rendendo tutto troppo omogeneo specialmente nella seconda parte del disco, dove la malinconia delle canzoni finisce per essere davvero opprimente.

Di questo album, probabilmente, sarà realizzata una versione in inglese da pubblicare sul mercato estero; credo di poter dire con sicurezza che ci sono buone possibilità che la stampa inglese se ne innamori (tutta concentrata com’è a scovare un erede per i Coldplay, compresi i sopravvalutati Keane – non temete: nessuno snobismo, non li sopportavo nemmeno prima), ma da queste parti, o almeno nelle mie orecchie, la tristezza un po’ forzata di queste canzoni non ha davvero fatto breccia.

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