WEIRD WAR, If You Can’t Beat ‘Em, Bite ‘Em (Drag City, 2004)

C’erano una volta i Nation of Ulysses, il cui “Plays Pretty for Baby” rimane a distanza di dodici anni uno dei capisaldi del catalogo Dischord. Il leader della band era Ian Svenonius. Vennero poi i Make Up, capitanati da Svenonius e Michelle Mae i quali, insieme all’ex Royal Trux Neil Hagerty, pensarono bene nel 2001 di fondare i Weird War. Ora, a due anni di distanza dall’esordio omonimo, i Weird War tornano sulle scene, con Alex Minoff (già membro dei Golden insieme alla Mae) in luogo di Hagerty.

Se proprio volessi essere pedante potrei ricordare che il terzetto aveva già dato alle stampe un album non del tutto soddisfacente a nome Scene Creamers, ma tant’è… il nuovo lavoro dei Weird War mostra di non aver nulla da invidiare, in fatto di ironia e sincerità, al passato a cui eravamo stati abituati, aprendosi sul parlato di Svenonius che declama, mentre in sottofondo prendono corpo eresie sonore e gemiti, un “Intro (Music for Masturbation)”. Il bello è che di fronte a molte produzioni che sembrano fare dell’autoreferenzialità e dunque dell’autoerotismo intellettuale una base poetica, i Weird War risultano essere un corpo decisamente estraneo.

“Grand Fraud” è una solida aggressione rock dalla base vagamente blueseggiante che deflagra in un ritornello à la Iggy Pop. Quando tutto sembra essere stato dichiarato – rock sudaticcio, corporeo, quasi animalesco nei suoi tratti più deliranti e tribali -, arriva la netta smentita ad opera di “Tess”, energico impasto di materiali elettronici, acustica, e riverberi cosmici, tutti elementi riportati ad un’urgenza stressata e stressante. Indubbia l’importanza dell’apporto di Minoff a questo cambio di sonorità: polistrumentista di razza, capace di passare dalla chitarra al sitar alle percussioni fino ad arrivare all’harpsicord, si inserisce nella struttura sonora collaudata da tempo dal duo Svenonius/Mae portando con sé i germi di un mondo musicale scontroso, inadatto alla forma classica, terrorista nel senso più eroico del termine.

C’è da dire che non tutto risulta essere scintillante, anzi c’è da fare i conti con il rischio della prevedibilità in più occasioni, soprattutto nel funk per wah wah “Moment in Time”, nel singolo “AK-47” e nella corposità spezzata di “Chemical Rank”. Eppure si ha l’impressione netta di trovarsi di fronte a una band dal futuro potenzialmente luminoso, e per la statura acquistata nel corso degli anni da parte dei singoli membri e per la deliziosa irregolarità di brani come la title-track, aperta da cani abbaianti, percorsa da una batteria marziale, rumori di sottofondo, un basso decisamente funk, un impasto vocale stordente e una chitarra acidissima.

L’album se ne va con “Lickin’ Stick”, rilettura del blues in chiave kraut-rock con accenni stonesiani e con la dimessa ballata dal sapore sudista “One By One”, come al solito sommersa da riverberi, nuovo verbo sonoro della band. Ian Svenonius sembra essere dunque sulla buona strada; dopotutto la classe non è acqua, giusto?

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