PECKSNIFF, Elementary Watson (Merendina rec., 2003)

La musica è, come ogni arte, la messa in scena e la strutturazione di un’idea, di una forma mentis. Questa forma mentis è spesso influenzata, anche inconsciamente, da sprazzi di memorie infantili, partendo dunque da una base solipsistica. I Pecksniff, sestetto alla seconda uscita discografica, non fanno altro che trasformare la memoria dell’infanzia – oggetti, giochi, pensieri – in musica.

Il delicato attacco di “The Bees Attack!” fa irrompere un mondo fatato, aperto a rumorismi di vario genere (i sei usano giocattoli accanto agli strumenti tradizionali), pronto a cambiare faccia in corsa, come il finale da orchestra di strada che chiude il pezzo di apertura. Una grazia folle che sembra rifarsi, negli episodi più riusciti, a Syd Barrett e ad altri cappellai matti della scena folk psichedelica anni ’60 come l’Incredible String Band – senza mai essere così estrema comunque -.

La melodia diventa qualcosa di totalmente in fieri, a cui aggiungere idee senza preoccuparsi della metrica e del senso. “Dakota” è un lamento pseudo-western, “My Heart Was Broken Again” ha una struttura più corposa che a tratti riporta alla mente le ipotesi neo-pop di Stephen Merritt, uomo band dei Magnetic Fields, “Drawing the Sky” una struggente ballata pop adagiata su uno xilofono cullante e su un basso martellante. Intelligente l’orchestrazione che accompagna il crescendo di “Susy D.J.”, sicuramente uno dei brani migliori dell’album, divertentissimo l’incedere di “A Book into Your Eyes” dove l’intreccio delle voci di Stefano Poletti e Patrizia Dell’Argine raggiunge il suo apice. “The Song of Stephanie and Stephen” presenta una chitarra quasi hardcore, ma è solo uno scherzo, presto si ritorna a sonorità più consone alla compattezza dell’album; album che si chiude sui tintinnii di “The Snow on Your Head”, spezzata ballata acustica che conferma la semplicità di scrittura della band.

Un album notevole, inaspettato e tranquillizzante, che esula da mode, abitudini, usanze contemporanee e mostra un buon gusto appaiato ad un giocare divertito e a tratti anche originale. Da ascoltare senza preoccupazioni e senza snervarsi: la semplicità è l’arte più difficile da rendere senza banalizzarla. Qui c’è l’impressione di avere davanti qualcuno che lo sa fare. Complimenti.

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