ONEIDA, Secret Wars (Jagjugawar, 2004)

A poco più di un anno di distanza da “Each One Teach One”, doppio cd capolavoro vincitore dei MusiKàl! Awards, il gruppo di Kid Millions e Bobby Matador torna sulla piazza, presentando il nuovo lavoro “Secret Wars”.

E stupefacendo fin dal primo brano: l’ammaliante trama di “Treasure Plane” si sviluppa con un andamento molleggiato, psichedelico, destinato a perdersi in una corsa sonora sfrenata e carica di riverberi, con il basso in evidenza. Gli Oneida sono sempre disposti a straniare il proprio uditorio, e non si smentiscono. Ossessionante e pregno dell’essenza tipica della band “Ceasar’s Column” – memoria della loro tournée italiana dello scorso anno? – dove una batteria metronomica accompagna l’opprimente pestare di tastiere sul quale si elevano voci apparentemente rilassate; il brano diventa una vera e propria marcia – con rintocchi metallici in sottofondo – angosciante, pervadente, irrefrenabile e snervata.

La fusione tra post-punk, avanguardia e psichedelia continua ad essere l’elemento portante del sound caratteristico dei tre statunitensi, come dimostra ampiamente “Capt. Bo Dignifies the Allegations with a Response”, dove una trama orientaleggiante è dileggiata da irruenze punk e reiterazioni infinite, definendo alla perfezione un divertissement caustico. C’è anche una “Wild Horses”, ma non c’entra niente con lo stranoto brano dei Rolling Stones: una chitarra acida si lancia in una ballata che ricorda molto rock dei primi anni ’90, sorprendendo non poco. Sinceramente, era proprio quello che non mi sarei mai aspettato dagli Oneida, ma tant’è… dopotutto a ricordarmi di fronte a chi mi trovo ci vuole veramente poco: si passa dal pathos di “Wild Horses” alla cupa follia profondamente scorbutica di “$50 Tea”, quasi cinque minuti di immersione totale in un minimalismo che fa della deformità e dell’industrialismo caotico il proprio credo incrollabile.

Il kraut rock non è certo passato invano, a sentire qui. La chitarra si fa padrona della situazione nell’instabile e ammaliante incedere di “The Last Act, Every Time”, ninna nanna per ectoplasmi drogati, delicata eppure non esente da reiterazioni e visioni ossessionanti – come tutte le ninna nanne, o no? -, e nella catarsi più propriamente rock di “The Winter Shaker”, ennesima metamorfosi della band, camaleontica come non mai nello spaziare da un’intuizione all’altra, in una “danza delle derivazioni” che a ben vedere ha quasi dell’unico nel panorama contemporaneo.

E a chiudere il tutto ci pensa “Changes in the City”: laddove “Double Lock Your Mind” metteva fine con un’improvvisazione orgiastica hard-rock con intermezzo punk ad “Anthem of the Moon” e “Sheets of Easter” apriva istericamente il cd 1 di “Each One Teach One” trascinando l’ascoltatore in quattordici minuti di trance totale, annebbiamento del cervello e reiterazione infinita, qui ci troviamo di fronte a un quarto d’ora di pura e semplice jam improvvisata che sembra provenire diritta diritta dal 1969, perdita di coscienza, espansione degli orizzonti, trip lisergico in assenza di gravità.

Il suono, e qui sta la vera novità del disco, si è fatto più preciso, levigato, curato, ma contiene al suo interno il medesimo germe distruttore che ha prodotto fino a questo momento, dal 1997, sei album e due EP: queste “guerre segrete” rappresentano il terzo capolavoro consecutivo di una band miracolosa, salvifica, indispensabile. Raggio di sole nel bianco cielo nuvoloso di gennaio. Com’è il detto? “Il buongiorno si vede dal…”; benvenuto, 2004.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *