EN CODE, Singing Through The Telescope (Ghost Records, 2003)

La Ghost Records di Varese si è via via imposta come una delle etichette indipendenti più interessanti emerse negli ultimi anni. A confermarlo ecco l’esordio degli Encode, nuova formazione ad emergere dalla scena di Varese dopo Bartòk, Midwest e Mr. Henry.

Il loro “Singing Through The Telescope” è un disco ostico e nervoso sulla scia dei Sonic Youth più disturbati. La voce femminile e i sinistri intrecci delle chitarre trasmettono una sensazione di sottile follia, un po’ come succede tra le pieghe di “Evol” di Kim Gordon e soci. Non stupisce quindi di incontrare episodi come l’iniziale “An addition to the family”, “Daylight Delight” con l’ottima apertura melodica del ritornello, o ancora “Baretta”, vicino a certe atmosfere care agli Uzeda, e “Before I Wake”, un ricordo degli Unwound.

Sono brani ruvidi, in cui affiora una rabbia trattenuta, sempre sul punto di esplodere, e una sottile nevrosi di fondo che percorre i brani dall’inizio alla fine. Né sorprende che compaia una ballata scheletrica come “Delight Daylight”, affidata a pochi scarni accordi di piano per evocare scene di solitudine.

Le pagine più personali arrivano quando gli Encode trovano una scrittura più diretta e compongono canzoni che lasciano maggior spazio alle melodia. La scintillante ” Unsubstantial Love”, posta in chiusura del disco, e poi “Vanished” e “Fading Here”, sono armonie aspre e vellutate in cui chitarre e voce si sposano alla perfezione. E poi “Mother make me pray” e “Abatament”, canzoni compiute che lambiscono certe inquietudini care ai Portishead, regalando grandi emozioni.

Così come appare convincente una rilettura spigolosa della celebre “White Rabbit” dei Jefferson Airplane. Un esordio solido quindi, con alcuni spunti notevoli. In attesa di una conferma.

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