PETER GABRIEL, Peter Gabriel III (Charisma/Virgin, 1980)

Dopo due albums molto interessanti, talvolta con canzoni di grande spessore (“Here Comes The Flood”, “Solsbury Hill” e “Mother Of Violence”) l’ex carismatico front-man dei Genesis non aveva ancora espresso tutto il meglio del suo multiforme talento. Questo terzo lavoro apre il periodo d’oro della sua carriera, iniziando una ricerca sonora che darà vita ad autentici capolavori come il successivo “Peter Gabriel IV” e il best-seller “So”. Il tema che lega le splendide canzoni di “Peter Gabriel III” è essenzialmente uno solo: l’alienazione dell’uomo moderno, lasciato in balia di se stesso in un mondo che non puo controllare e che lo porta sull’orlo di un baratro. Il volto liquefatto in copertina sembra essere al riguardo molto esplicito. L’incomunicabilità (“I Don’t Remember”), l’isolamento (“Not One Of Us”), la perdita dell’autocontollo (“No Self Control”) e della privacy (“Intruder”) fanno parte di un serie di ossessioni che forse sono più attuali oggi di vent’anni fa, quando venne pubblicato l’album. Dopo il tracollo arriva la cura con “Leading A Normal Life”, il rimedio per tornare a riprendere una “vita normale”. L’ombra di “Taxi Driver” e Martin Scorsese sono presenti in “Family Snapshot”, ispirata alla figura dell’attentatore del governatore George Wallace, che agì non per scopi politici ma per “essere qualcuno”. Gabriel scrive il testo in prima persona, immedesimandosi nel killer e nel suo estremo bisogno di attenzione (che cela un’infanzia infelice). Attraverso gli occhi dei bambini l’orrore della guerra sembra quasi un gioco (“Games Without Frontiers”, con l’intervento vocale della splendida Kate Bush). La musica del disco scorre in modo cupo e potente, pur non rinunciando alla melodia. La batteria di Phil Collins e del fedele Jerry Marotta picchiano duro mentre è deciso l’intervento delle chitarre di Robert Fripp e dei giovani (allora) Paul Weller e Dave Gregory degli XTC, capitati chissà come nello stesso studio di registrazione di Gabriel. Si chiude alla grande con “Biko”, forse il miglior inno antirazzista mai inciso da un musicista rock. A ben vedere il Sudafrica e l’Apartheid sembrano essere lontani anni luce dalle fantasie barocche di “Supper’s Ready” e”Firth Of Fifth”. Ma Peter Gabriel ha fatto un viaggio temporale, è partito da lontano ed arrivato ai nostri giorni.

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