STEVE WINWOOD, About Time (Wincraft Music, 2003)

Alta qualità o pura routine, sentimento o arido calcolo? Non sono totalmente concordi i giudizi sull’ultima fatica di Steve Winwood, l’album del ritorno a distanza di sei anni da “Junction Seven” (1997).

Certo l’autore non ha fatto molto per impedire l’affacciarsi di qualche maliziosa critica: la dichiarata sfida a Santana, evidente fin dalla copertina chiaramente ispirata a quella di “Supernatural”, non fa che insinuare il sospetto che possa trattarsi di puro calcolo opportunistico, sull’onda del successo generalizzato che ha baciato la musica latina e latino-americana negli ultimi anni. Certa leziosa corrività dei lavori dell’ultimo Winwood anni novanta non erano un precedente molto confortante.

Ma Winwood è un inglese puro sangue, cresciuto musicalmente nel periodo forse più incandescente della storia del rock, a cavallo fra anni sessanta e settanta, quando la ricerca di nuovi stili e nuovi suoni era all’ordine del giorno e la mescolanza dei generi dava ancora il brivido della scoperta: quella di “About Time”, quindi, suona non come una imitazione, un adeguamento all’ultima moda, bensì come la risposta amichevole di un maestro alla moda stessa. Ciò non può che significare interpretazione di alto livello, nella quale è la personalità dell’artista a piegare ai suoi voleri la moda, e non viceversa.

E infatti “About Time” non è un disco di musica latina, così come “John Barleycorn Must Die” o “The Low Spark Of High Heeled Boys” dei Traffic non erano – ad esempio – progressivi. Winwood scherza con i caldi ritmi latini, li sfrutta a suo vantaggio, ma mantiene un rigore e un’etica musicali sconosciuti a parecchi dei suoi colleghi che hanno tentato la medesima strada, compreso l’ultimo Santana.

All’accusa di piattezza e di gradevole monotonia, di mancanza di acuti, si risponde agevolmente: anche i Traffic dei primi settanta, assunti come aurea pietra di paragone dai polemici, facevano musica così, piana, senza grandi strappi ritmici e armonici, elegante, di pathos rattenuto e latente. Dunque se si demolisce “About Time” bisogna demolire anche i Traffic del trio Winwood-Capaldi-Wood (e lo dice uno che ogni tanto i Traffic li critica davvero…), il che, “per la contradizion che nol consente”, annulla automaticamente la critica. Consigliamo agli scettici di apprezzare la perfetta fusione di soul, blues, funky e pop latino del disco (“Bully” è paradigmatica, un traffic-funk), la spontaneità di un disco quasi privo di sovraincisioni, con una marcata propensione live – evidenziata dall’improvvisazione di “Silvia”, lunga cavalcata conclusiva.

Coadiuvato da Jose Neto alle chitarre e da Walfredo Reyes Jr. alla batteria e alle percussioni (gli interventi di flauto e sax sono di Karl Denson), senza bassista, Winwood ci regala un organo Hammond come se ne sentono di rado, talvolta davvero esaltante, sempre graffiante e genuino (i riff di “Now That You’re Alive” e “Phoenix Rising”!), che fa da solista e da basso. Non stiamo parlando forse di un capolavoro, ma certamente di un lavoro senza punti deboli, dal solare attacco di ‘Different Light” al folk-blues di “Cigano” al possente pop-soul caraibico di “Phoenix Rising”, strepitosa nella ritmica e intensissima nelle note tenute di organo, assolutamente degna dei migliori Traffic, dalla cover di “Why Can’t We Live Together” di Timmy Thomas alla superba “Horizon”, vertice melodico dell’album, duetto voce-chitarra di quelli di una volta, con leggero sottofondo di organo, classico folk-rock che scardina qualsiasi certezza fino a quel punto raggiunta nell’ascolto e spezza letteralmente il ritmo.
Bentornato Steve.

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