MOBY, 18 (Mute, 2002)

Impossibile non conoscere Moby, ormai. “Play”, il suo disco precedente, ha goduto di una sovra-esposizione mediatica vertiginosa, tutte le 18 canzoni di quell’album sono state utilizzate come colonna sonora di pubblicità e film, i suoi video (memorabile quello di “Natural blues” firmato da David La Chapelle, lo ricordate?) erano continuamente passati su MTV…

Un piccolo miracolo di elettronica accessibile alle masse (10 milioni di copie vendute significheranno qualcosa, no?), musica semplicissima e per questo impossibile da cancellare dalla mente una volta ascoltata. L’idea originale di quell’album stava nell’aver ripescato da vecchi vinili del negozio sotto casa alcuni standard blues, averli campionati e imbastarditi con suoni attualissimi. Il risultato poteva anche non piacere, ma “Play” rimane uno dei dischi più importanti degli anni ’90.

Il problema è arrivato quando si è trattato di dare un seguito a quell’album: di fronte alla scelta se spostarsi su nuovi territori (in carriera Moby è passato senza problemi dalla house al punk all’elettronica) o se ripetere una formula vincente, purtroppo il nostro ha adottato la seconda possibilità, con un risultato fiacco ed irritante.

“18” è lunghissimo e fin troppo omogeneo (erano proprio necessari 71 minuti?); le differenze tra le diciotto canzoni sono pochissime e minime, tanto che è difficile che qualcosa si faccia ricordare ai primi ascolti: spiccano “We are all made of stars”, bel primo singolo di atmosfera simile al Bowie berlinese, “Great escape” (semplicissima unione di un violoncello e la bella voce di Azure Ray), “Another woman” (forse la migliore del lotto, un bel groove e un pianoforte che si fa ricordare) e la title track, dai vaghi sapori new age.

Due donne impreziosiscono altre canzoni: Angie Stone compare in quella vivace escursione nei territori old skool che è “Jam for the ladies”, mentre Sinéad O’Connor presta la sua voce, ormai incapace di stupire come agli inizi, alla morbida “Harbour”.

Un disco di elettronica decisamente poco festaiola, da ascoltare, come suggerisce il suo creatore, di notte, da soli, nella propria stanza.
Qualcosa da salvare c’è, ma poche tracce belle non bastano a risollevare un album deludente non tanto per la qualità, ma perché somiglia a una continua autocitazione, e alla lunga tutto questo finisce per essere irritante.

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