ORANGER, The Quiet Vibration Land (Poptones, 2000)

Dopo l’ufficializzazione dello scioglimento dei Pavement l’attenzione degli appassionati di indie rock americano si è concentrata sull’imminente esordio solista di Stephen Malkmus, che del gruppo americano era il cantante e il principale compositore. Un altro personaggio chiave di quella formazione, Scott Kannberg, conosciuto anche come Spiral Stairs, torna a far parlare di sé in questo periodo avendo scovato questo oscuro gruppo di San Francisco, gli Oranger. Se ne è accorto immediatamente Alan McGee, fondatore della storica etichetta inglese Creation ora alla guida della Poptones, che ha deciso di distribuire questo loro disco in Europa. In apparenza “The Quiet Vibration Land” sembrerebbe un disco frizzante capce di riallacciarsi alla musica americana anni ’90 che partendo dagli stessi Pavement e passando per Flaming Lips e Mercury Rev, arriva fino ai Grandaddy. Tuttavia dietro le melodia sporcate di rumore, dietro le chitarre che talvolta accelerano, appaiono canzoni fresche e solari, che inseguono la musica anni ’60. E quindi affiorano melodie cristalline, armonie vocali e chitarre lievi. Vengono in mente Beatles e Beach Boys ad esempio nell’iniziale “Sorry Paul” e nella vivace “Springtime”. E altrove, la bellissima “View of the City from an Airplane” e “Suddenly Upsidedown”, sono i Byrds a fare capolino. Del resto l’amore per le melodia risalta anche quando il ritmo rallenta e i suoni si fanno pacati, quasi completamente acustici, come nella la dolce ballata “Falling Stars”. Il trucco degli Oranger è piuttosto semplice: ripescare suoni e idee degli anni sessanta rendendoli attuali. “The Quiet Vibration Land” ne esce come un disco ricco di canzoni accoglienti, dolci come un mattino primaverile. Ingenue forse, ma di una freschezza disarmante.

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