Samuele Conficoni 2021 Awards

Un altro anno drammatico e stancante, il primo anno post Covid, e un mondo culturale sempre più sfilacciato che, pur colpito duramente dalla crisi, si è leccato le ferite e ha provato a organizzarsi e a ripartire. Mentre già in primavera ritornavano i live, non senza difficoltà, la grande musica non aveva mai smesso di arrivare. In fondo è nei momenti più difficili che l’arte ci viene in soccorso, e nel dolore spesso nascono opere straordinarie. È stato un anno musicale particolarmente variegato, agitato e sorprendente, tra solide conferme, come quelle di Tyler, the Creator sempre più convincente, di Tirzah, magistrale, di Jazmine Sullivan, energica e graffiante, di The Weather Station, con un’opera polifonica e poetica, di Little Simz, un fiume in piena, e di Snail Mail, con il suo cantautorato tormentato, e rivelazioni inaspettate, dai corrosivi Turnstile agli elettrizzanti Dry Cleaning, dal pop-soul sperimentale di L’Rain al cantautorato atipico di Cassandra Jenkins, senza dimenticare le più o meno giovani certezze, maestosi sempreverdi come i The War on Drugs, i Low, Nick Cave e Warren Ellis e Pharoah Sanders. Ecco selezionati venti brani e venti album, pur essendo impossibile esaurire con essi tutto il bello che la musica ci ha dato anche in un anno così difficile.

TOP 20 SONGS

20) Faye Webster – “Cheers”

Marziale nel suo ritmo e nel suo procedere saldo e spedito, “Cheers” rappresenta un momento particolarmente cruciale nella climax che crea la tracklist di I Know I’m Funny haha. Esattamente al centro dell’album, “Cheers” è una elegante ballata disordinatamente romantica, come è tipico della produzione della cantautrice, nella quale Webster espone una serie di dubbi e di ansie che la perseguitano, che lei è in grado, però, di esorcizzare in una sorta di risata nervosa, un gesto beffardo che sembra lasciare alla Tyche, al fato incomprensibile agli uomini, l’ultima battuta. È nel sangue di Webster riuscire a comporre brani come questo, magici proprio perché stanno in piedi a fatica, la cui profondità giace proprio nella loro soltanto apparente semplicità.

19) Noname – “Rainforest”

“Made the world anti-black, then divided the class”: l’hip-hop politico, sferzante e aggressivo di Noname non potrebbe avere un sunto migliore di questo splendido verso. Nel repertorio della rapper “Rainforest” è una radicale accusa al capitalismo e a tutte le forme deviate di società e di cultura cui esso ha dato vita, creando una connessione tra i propri timori e le proprie insicurezze e il sistema malato in cui si trova a dover vivere. “It’s fuck they money, I’ma say it every song”, canta ancora, “Until the revolution come and all the feds start runnin’”: soltanto la lotta, coerente e dura, può liberare lo spirito degli oppressi. In vista di ciò lo studio è fondamentale, e non a caso la rapper ha creato un’organizzazione che si occupa dello scambio di libri e di promozione di autori emergenti afroamericani, e l’amore è un sentimento puro al quale aggrapparsi per sfuggire alla follia dilagante. È sorprendente ed entusiasmante vedere come Noname riesca ogni volta a cantare di sé e del mondo con questa lucidità.

18) Grouper – “Unclean Mind”

Ancora Liz Harris. L’ottimo ritorno del suo progetto Grouper con Shade viene anticipato proprio da “Unclean Mind” ed è l’ennesimo centro della sua carriera. Niente piano, qui, ma una chitarra acustica e la ben nota atmosfera lo-fi che precipita il brano in un ambiente nebuloso e straniante, carico di mistero e di simboli e segni angoscianti. È come leggere una profezia: occorre interpretare parole oscure, ambigue, che sta sempre e solo a noi riassemblare per far sì che possano avere un significato. “Unclean Mind” potrebbe essere uscito da Roman Candle di Elliott Smith per la sua impossibilità a essere tradotto in qualcosa di concreto e afferrabile; quando pensi di averlo fermato è già altrove, e a forza di scivolare via si perde all’orizzonte, lasciandoci pieni di interrogativi.

17) The Weather Station – “Tried to Tell You”

Quello splendore che è Ignorance, art pop luminoso e cristallino che sa spezzare il cuore per intensità e bellezza, è fatto di episodi più bui e improvvisi bagliori. “Tried to Tell You” è il sereno che segue la tempesta: rimuginando su un passato che non può essere cambiato ma che continua a infastidire la cantante come un fastidioso prurito, Weather Station concentra la magia del brano in un gesto che non si è concretizzato, in quell’istante fatidico che avrebbe potuto cambiare le sorti di un’amicizia o di una storia d’amore. La perfezione sta, perciò, nel non detto, in quello che avrebbe potuto accadere ma che non è stato. Pur guardando a una situazione specifica, che ha visto o vissuto, Weather Station rende il tutto rarefatto ed etereo, e il tempo si ferma proprio sul più bello: “I tried to tell you / But I ‘m not sure you remember / So I tried to tell you / And thought it cannot be measured / I tried to tell you / Would it kill you to believe in your pleasure?”. Non c’è alcuna risposta definitiva, ovviamente, e si resta in equilibrio su un filo come fanno i funamboli.

16) Megan Thee Stallion – “Thot Shit”

Il rap graffiante di “Thot Shit” rappresenta un altro diamante nella giovane carriera di Megan Thee Stallion. Su un beat perfetto e martellante la performer di Houston si scatena con un flow sempre più sciolto: libera e ardente, la sua voce occupa ogni millimetro cubo del brano, tanto che è essa stessa a diventare parte integrante della ritmica. “I don’t give a fuck ’bout a blog tryna bash me / I’m the shit per the Recording Academy”, canta Megan, senza mandarle a dire a chiunque osi criticarla. Non sanno con chi hanno a che fare, sembra ripetere, mentre, nel visual, fa metaforicamente a pezzi un vecchio bavoso. Non c’è spazio per chi non sta al passo con lei: chi non si adegua verrà impietosamente travolto da una cascata di parole pesanti come pietre.

15) Yves Tumor – “Jackie”

Il rock lisergico e snervante di Yves Tumor assume questa volta le fattezze di “Jackie”, un treno merci fumante che non fa alcuna fermata e va dritto al bersaglio a velocità supersonica. Breve, diretta e come al solito gotica, “Jackie” porta la sfragís del suo autore con orgoglio e coerenza. È un punk rock pressoché indefinibile, che continua a mostrare quanto l’arte di Yves Tumor sia coraggiosa e asfissiante.

14) Lana Del Rey – “Chemtrails Over the Country Club”

Ben due sono gli album che Lana Del Rey ha pubblicato quest’anno, a ribadire una notevole esplosione compositiva della cantautrice, che aveva il non semplice compito di dare un seguito al capolavoro Norman Fucking Rockwell!, pubblicato nel 2019. “Chemtrails Over the Country Club”, che dà il titolo al primo dei due dischi usciti quest’anno, è una ballata romantica e malinconica che attraverso una strumentazione folk-pop figlia dei ‘70s e una voce riverberata e dolcissima dipinge un’atmosfera particolarmente intimistica e calda, in piena armonia con il resto dell’album.

13) SZA – “Good Days”

È stato un anno movimentato per SZA, in cerca d’ispirazione per il seguito dell’eccezionale CTRL, pubblicato più di quattro anni fa. I singoli che la cantante ha pubblicato quest’anno, la maggior parte dei quali collaborazioni di spicco, come quella particolarmente riuscita con Doja Cat in “Kiss Me More”, sono solidi e convincenti. Se anche “I Hate U”, diffuso giusto pochi giorni fa, funziona, “Good Days” è il brano che più rappresenta SZA in questo momento, una forza della natura introversa e ambiziosa costretta spesso a fermarsi a riflettere sul suo futuro, sul seguito del suo vero e proprio debutto, sul rapporto con sé stessa come donna e come giovane artista. Su una splendida base pop-soul rilassante, SZA guarda a una relazione fallita e prova a comprendere come liberare la testa da quel pensiero ossessivo. La sua stessa voce, così provata nell’interpretare il brano, pare essere l’unica strada per la redenzione.

12) Tyler, the Creator – “Lumberjack”

L’album della definitiva maturità artistica – che in realtà era già arrivata da tempo ma che qui si manifesta con una coerenza e una autocoscienza ancor più evidente – di Tyler, Call Me If You Get Lost, è colmo di momenti hip hop brillanti e spassosi proprio quando da lui ci saremmo aspettati ulteriori e gustose avventure R&B, neo-soul e pop, com’era avvenuto con Igor. “Lumberjack” è una spericolata e trionfale corsa in auto che trova la sua collocazione su un beat acido e vibrante nel quale la delivery di Tyler e gli interventi a piè di pagina dei suoi collaboratori sono semplicemente perfetti, sempre on point e sempre straordinariamente avvincenti. Nei suoi due minuti infuocati, “Lumberjack” pretende di essere riascoltata in loop.

11) Indigo De Souza – “Kill Me”

In Any Shape You Take Indigo De Souza racconta di sogni terribili, di presenze inquietanti, di metamorfosi e di amori turbolenti. “Kill Me”, chiusura dell’album, è un gioiello pop rock visionario e attraente, che come un serpente a sonagli ti immobilizza e disarma, la conclusione perfetta per un disco infestato di inquietanti presagi e disseminato di speranze frustrate che all’ascolto, però, pare descrivere una splendida giornata di sole. “Kill me, kill me, no one asked me / To feel this fucked up”, esplode a un certo punto l’autrice. L’amore tossico che sperimenta la porta a interrogarsi in primis sul proprio stato di salute, che la costringe a occuparsi prioritariamente di sé stessa. Questo spiega l’euforia e lo sconforto che caratterizza il brano, costruito intorno a un bipolarismo che sembra irrisolvibile.

10) Jazmine Sullivan – “Girl Like Me” [feat. H.E.R.]

Arrivata a inizio gennaio a squarciare la piattezza musicale che spesso contraddistingue i primi giorni di un anno appena all’esordio ed episodio conclusivo dell’eccezionale Heaux Tales, “Girl Like Me” è un fulmine che attraversa un cielo buio e carico di ombre e inquietudini. Muovendo da questioni sentimentali che pongono sul banco degli imputati gli uomini della sua vita, il brano diventa presto un’analisi lucida e sincera di un mondo che è di per sé ingrato nei suoi confronti. Dal piano individuale ci spostiamo su quello globale e sull’esistenza e la resistenza della donna nera in esso. L’apporto di H.E.R. è fondamentale: la voce di Sullivan la cattura perfettamente ancorandola alla sua e al minimale tappeto sonoro che dà linfa al brano. “‘Cause you don’t want us no more / It breaks us to the core”, canta Sullivan, e la sua stessa voce, spesso intrecciata a quella della collega, è il farmaco adatto per provare a guarire.

9) Cassandra Jenkins – “Hard Drive”

Lo splendido cantautorato di An Overview on Phenomenal Nature ha la sua akmè in “Hard Drive”, ruminazione filosofica più recitata che cantata che in un certo senso rappresenta sia le fondamenta sia il fine ultimo dell’opera intera. Le parole pronunciate dalla security guard sono ciò da cui Cassandra Jenkins muove per entrare in medias res nella storia: come ha dichiarato lei stessa, “I just love talking to people, to strangers”; non è un caso, dunque, che al centro della canzone vi sia, appunto, una panoramica di ciò che diverse persone pensano sulla natura delle cose, una serie di diapositive nitide e intriganti che la cantautrice newyorchese descrive con vivida partecipazione. “The mind is just a hard drive”, canta Jenkins con pathos, mettendoci in connessione con l’altro e con la nostra e con la sua finitezza.

8) Japanese Breakfast – “Be Sweet”

Il pop-rock lisergico di “Be Sweet” rappresenta un ulteriore passo avanti nella brillante carriera di Michelle Zauner, qui aiutata da Jack Tatum dei Wild Nothing a dar vita a una tempesta di elettricità sgargiante, tra chitarre fastose e synth e tastiere strepitanti. “Make it up to me, you know it’s better”, canta Zauner, in quello che è probabilmente l’episodio più melodico e massimalista della sua intera carriera finora. Siamo catapultati in una hit Anni ‘80 piena zeppa di lustrini e di echi che sin dal primo momento ti inghiotte dentro di sé. Tuttavia, nel suo incedere solido, il brano fa emergere anche altre atmosfere, dal garage rock dei ‘90s all’indie rock dello scorso decennio. Nel trascinarti con sé e nello sconquassarti, “Be Sweet” ti lascia confuso, incuriosito e immobile, non permettendoti di capire in quale periodo storico stai viaggiando.

7) Sharon Van Etten; Angel Olsen – “Like I Used To”

Altro meraviglioso esempio di power-to-the-women indie rock è quello offerto da due paladine del genere, due cantautrici che forse più delle altre hanno plasmato l’essenza stessa del rock al femminile degli Anni Dieci, cioè Angel Olsen e Sharon Van Etten. La forza della loro splendida “Like I Used To” sta proprio nelle differenze che esistono tra le due per quanto concerne il metodo di scrittura, gli approcci alle performance e le tematiche affrontate nei brani. La loro alleanza dà vita a un rock dinamitardo ed elegante che canta la “rivoluzione delle abitudini”, se vogliamo riassumere il tutto in un efficace ossimoro, in un periodo storico dove tutto è sottosopra e non esiste più alcuna certezza.

6) Mitski – “The Only Heartbreaker”

Nel 2022 Mitski tornerà con un nuovo album Laurel Hell, il primo dopo Be the Cowboy, pubblicato nel 2018. Il singolo più efficace tra quelli già diffusi è “The Only Heartbreaker”, nel cui video Mitski danza intorno a un incendio e viene risucchiata da una crepa del suolo. Già nell’eccezionale “Nobody”, Mitski aveva accarezzato la fine dei tempi mettendo in connessione la solitudine umana al riscaldamento globale e a un disastro sociale e ambientale senza precedenti. Tre anni dopo, nel bel mezzo di una crisi sanitaria, economica e umana senza alcun precedente recente, quelle parole risuonano ancor più evocative e sinistre e sembrano in parte rivivere anche in “The Only Heartbreaker”: benché la cantautrice qui canti della rassegnazione che prova nel percepire che è la sconfitta ciò a cui è votata, riconoscendo di essere in primis lei stessa il problema, quello che emerge dal testo e dal video è che il mondo intero – non solo quello di Mitski – è sul punto di distruggersi, condividendo con la cantante la sua debolezza e inadeguatezza; là fuori, intanto, impazza un tripudio pop rock che sembra uscito dagli ‘80s ma che sconfina nella contemporaneità e che rimanda a Cyndi Lauper come, in certi accenni, addirittura a Björk.

5) The War on Drugs – “I Don’t Live Here Anymore”

Adam Granduciel e soci ritornano con un album stracolmo di eccezionali rock anthems intimistici e malinconici, che con un occhio guardano al passato e con l’altro provano a modellare il presente e il futuro. Il pezzo che dà il titolo all’album è il perfetto biglietto da visita per l’opera intera: lo ieri è appena dietro l’angolo e perseguita Granduciel come uno spettro che lo visita ogni singola notte. Si manifesta in una citazione a Bob Dylan che viene riportata immediatamente, per la quale l’autore è una “creature void of form” stesa sul proprio letto, e in un concerto dello stesso, un momento speciale cui il cantante guarda con una nostalgia particolarmente forte mentre ricorda di aver ballato sulle note di “Desolation Row”. La melodia straordinariamente incisiva colpisce e ipnotizza, rinvigorendo in ogni singolo istante le verità sacrosante che la canzone veicola. Quando Granduciel canta “We’re all just walkin’ through this darkness on our own” non possiamo che dargli sommessamente ragione.

4) FKA twigs; Headie One; Fred Again – “Don’t Judge Me”

La spettacolare “Don’t Judge Me”, uscita a fine gennaio, rielaborazione ed espansione di un interludio presente nel mixtape GANG di Headie One al fianco del producer Fred Again pubblicato nel 2020, è un’esperienza straordinaria, coinvolgente e avvolgente, che la voce di twigs conduce nei territori più inesplorati della nostra galassia. Il rap di Headie One è frastagliato e conciso e rimbalza sulle note ispirate e sui ritmi graffianti che Fred Again intesse, dimostrando quanto l’hip hop britannico sia in ottima salute. Ma è chiaramente twigs il centro di tutto: ogni suo singolo vocalizzo, come d’altronde la sua virtuosistica performance di danza nel video, rende unico il viaggio, un percorso a ostacoli che si condensa in apparizioni e rivelazioni nebulose e improvvise, un vero e proprio trip interstellare onirico e privo di una meta definita.

3) Snail Mail – “Ben Franklin”

Lindsey Jordan compie un altro passo avanti nella sua ancora giovanissima carriera: nel suo sophomore album, Valentine, attraversa una galleria variegata e pittoresca di generi, personaggi e atmosfere. In “Ben Franklin”, definita dalla sua autrice come un’uscita dalla sua comfort zone, sia da un punto di vista musicale che un punto di vista lirico, Jordan mostra tutta la sua debolezza e prova a costruire certezze nell’incedere guerresco e tetragono dei riff di chitarra, delle batterie debordanti, dell’energica voce. E anche il visual che accompagna il pezzo lo dimostra, con la cantautrice che nel corso del brano “baratta” un pericoloso serpente con un cane affettuoso. È un umile tentativo di uscire dal buio durante il quale emerge una vulnerabilità poetica e dolce: “Sucker for the pain / Huh, honey?”, canta Jordan, privandosi di qualsiasi scudo, mostrandosi sincera e indifesa.

2) Low – “Days Like These”

“Days Like These” sembra inseguire il rumore confuso e soffocante che segue l’esplosione di una bomba. Gli occhi sfuocati non vedono nulla oltre la coltre di fumo che si è sollevata intorno e le orecchie offese provano a percepire qualche suono lontano, che solo di rado coincide con una voce umana. Tutto il resto è caos, vibrazioni, macerie carbonizzate. Dopo lo splendido Double Negative continua la decostruzione del rock operata con coraggio e saggezza da Alan Sparhawk e Mimi Parker. E così i due raccolgono i cocci della forma–canzone provando a costruire un discorso parallelo fatto di frammenti e lacune che tra loro si intersecano lasciando senza parole. Le voci effettate e le chitarre sublimi che danno il via alla canzone provano a costruire una melodia soave, una delle più luminose e aperte dell’intera carriera dei Low, che cerca di librarsi sopra il disastro sonoro che sta per arrivare. Gli edifici crollano, il suolo è ancora caldo, pian piano giungono frequenze distorte che sembrano arrivare da pianeti lontani. Alla fine resta una parola soltanto, “again”, risucchiata in un buco nero.

1) Big Thief – “Little Things”
“Little Things” esce nel bel mezzo dell’afa agostana e, insieme al suo Lato B “Sparrow”, è il primo singolo dei Big Thief dall’uscita dei due capolavori U.F.O.F. e Two Hands nel 2019, se si eccettua l’outtake “Love in Mine”, diffuso nella primavera dello scorso anno. Come l’artwork che l’accompagna, i contorni delle cose che Adrianne Lenker canta nel brano iniziano ben presto a sfumare: tutto si disperde, si frammenta ed evapora nella sua voce ipnotica e nei mulinelli di note che creano le chitarre. Lenker descrive cose e situazioni emozionanti e preziose, al sicuro ma al tempo stesso fragili, che perdono la loro consistenza nel momento in cui compaiono in scena. “New York City is a crowded place / I still lose sight of every other face”: è la voce poetica che crea e che disfà, rendendo ogni singola sillaba indistinguibile dall’humus naturale che le ospita e plasma.

TOP 20 ALBUMS

20) Water from Your Eyes – Structure

Structure è un concentrato electro-rock vorticoso e centrifugo che non si lascia catturare facilmente. Schegge di indie pop abbacinante e ipnotico creano ambienti spaventosi come “My Love’s” o cavalcate oniriche come “When You’re Around”, tratteggiando un suono delicato ed eclettico. Il duo non disdegna neppure sperimentazioni audaci, come dimostrano la cinematica “Quotations”, presente a metà e alla fine del disco, e la multiforme “Track Five”, la cui ritmica claustrofobica lascia interdetti e spaesati. Come è provato dalla eccellente produzione, Structure non lascia niente al caso.

19) Steve Gunn – Other You

Spettrale e maestoso, Other You, il sesto album di Steve Gunn, riporta in vita John Fahey e lo fa con coraggio e trasporto, calandolo in un contesto soave e armonioso. Ogni canzone porta con sé un marchio ancestrale: che sia il folk rurale di “Other You”, in cui l’autore prova a comunicare con l’altra persona che è in lui, sdoppiandosi e fornendo un fil rouge all’intero disco, o il country sfuggente di “Good Wind”, affascinante e minimale, dove la voce gentile di Gunn incrocia quella di Julianna Barwick, che pare avvolta da un raggio di sole, Other You non si concede episodi minori. Come al solito la chitarra di Gunn, soffice e vellutata, è un respiro a pieni polmoni che rapisce dal primo all’ultimo minuto.

18) Helado Negro – Far In

Non era semplice dare un seguito all’ottimo This Is How You Smile ma Far In è una sonora vittoria: Roberto Carlos Lange confeziona un disco che, nel riprendere temi e suoni del suo predecessore, riconduce le proprie esperienze di vita e creative a un rituale collettivo e catartico. Attraverso suoni caldi e familiari e collaborazioni di spicco, Lange ci invita a guardare dentro noi stessi per provare a capire qualcosa di più del mondo che ci circonda. Si tratta probabilmente del lavoro più caldo e diretto dell’autore, dove melodie al miele costruiscono un’atmosfera accogliente e intimistica. Scritto in gran parte nel deserto texano, Far In fa coesistere umori e sonorità estremamente diversi tra loro e numerosi collaboratori che arricchiscono il panorama sonoro dell’album. Ogni pezzo, intenso e pungente, assume i caratteri di una confessione, che non potrebbe avvenire se non nel luogo familiare e protetto che la musica crea.

17) Nick Cave; Warren Ellis – Carnage

Incastonato nella “catastrofe comune” – così l’ha definita lo stesso Nick Cave – che continua a imperversare intorno a noi, Carnage è una ricerca di speranza ostinata e selvaggia. Dopo i rivoluzionari e splendidi Skeleton Tree e Ghosteen, Carnage è l’ennesima pioggia di immagini che collegano storia individuale e storia universale e cerca di fare i conti con la distanza e con ciò che è ineluttabile. Nella cupa “Old Time” Cave dice all’interlocutore “Wherever you are, darling, I’m not that far behind”, in “Carnage”, che nonostante il titolo è una ballata angelica, confessa “I hope to see you again” con voce affranta ma ferma, e nel gospel “White Elephant”, collegando pensieri sul Black Lives Matter con flash di rivoluzioni imminenti, sia interiori che esterne, sostiene che “A time is coming / A time is nigh / For the kingdom / In the sky”. Affiancato qui dal solo Warren Ellis, da anni artefice principale del suono dei Bad Seeds, Nick Cave continua a esistere cantando di tempeste, presagi e preghiere.

16) Xenia Rubinos – Una Rosa

Coi suoi ritmi conturbanti e seducenti, Una Rosa, terzo album di Xenia Rubinos, è malizioso e dinamico. Mescolando ritmi caraibici a un suono elettronico originale e accattivante, Rubinos racconta storie che si interfacciano con la sua stessa vita e con fondamentali questioni di genere e d’identità. Una Rosa è affollato di personaggi e situazioni tra i più disparati, descritti con tono vivace e coinvolgente e suddivisi in due sides, una rossa, più aggressiva e diretta, e una blu, più introspettiva e pacifica. Dalla affannosa “Who Shot Ya?” al party di “Did My Best”, la carrellata delle scene esplorate è pressoché infinita.

15) Little Simz – Sometimes I Might Be Introvert

Il quarto album di Little Simz è un’esplosione di stili e mood molto diversi tra loro, un tripudio di colori e di vibrazioni che attraversano decine di generi. La rapper britannico-nigeriana dà alle stampe la sua opera più elaborata e matura, un lavoro a suo modo definitivo nonostante la giovanissima età dell’autrice; Sometimes I Might Be Introvert, il cui acronimo, Simbi, è parte del nome di Simz, è un mare magnum di ritmi ipnotici, deliveries sempre sul pezzo, affermazioni sempre “true to the core”, come canta nella cinematica “Rollin Stone” e sfumature policromatiche nel tono – a volte combattivo, a volte sarcastico – e nell’umore. In questo suo terzo lavoro, Little Simz è incandescente.

14) Indigo De Souza – Any Shape You Take

Qualsiasi forma Indigo De Souza, giovanissima cantautrice del North Carolina, prenda in questo suo secondo album, ci ritroviamo ben presto invischiati nelle storie che racconta, toccati nel profondo dalle vicende che la sua voce squillante e caldissima canta, impigliati in qualcosa di tossico, perturbante ed emotivamente difficile da sostenere. Inciampando nella rete, ogni elemento si scombina. Che sia la voce effettata e l’autotune di “17” o l’incubo allucinato di “Bad Dream” o ancora il lucido grunge-pop della trionfale “Hold U” o la pungente “Kill Me”, Any Shape You Take strappa applausi dall’inizio alla fine. “Please. Send. Help. To me”, canta De Souza quasi con rassegnazione, e noi vorremmo darle una mano.

13) Japanese Breakfast – Jubilee

Il terzo album di Michelle Zauner, dopo due splendidi gioielli pop-rock che cantavano di lutto, dolore e rimorso, prova a costruire un percorso verso la rinascita. Il portentoso “Be Sweet” prova ad aprire la luce: un tunnel electro-pop un po’ ‘80s che flirta con alcune atmosfere alt-rock dei ‘90s statunitensi, tra chitarre glitterate e synth magnetici, detta la linea per l’intero disco, colmo di episodi grandiosi nei quali la tristezza prova a convivere con una seppur fragilissima prospettiva di uscita dal buio. Ogni narrazione è incasellata nei ben noti riferimenti che sono centrali per Zauner: il lato oscuro della psiche indagato in “In Hell”, immaginari sci-fi in “Savage Good Boy” e un amore che è fedele compagno della solitudine nella avvolgente “Posing for Cars”. Japanese Breakfast pare aver raggiunto la sua akmè, ma il sospetto è che potrà ancora crescere. “Closeness / Proximity”, domanda in “Posing for Bondage”, ma la questione sembra rimanere inevasa, e da qui muove la ricerca di Zauner.

12) Tirzah – Colourgrade

Gli acquerelli miracolosi di Colourgrade rappresentano la maturazione definitiva della britannica Tirzah: canzoni d’amore, sulla vita, sulla morte lasciate quasi sospese nel vuoto, la cui meraviglia sta proprio nel loro sembrare sfocate, raminghe, indeterminate. Sono momenti nei quali il tempo sembra fermarsi e dove un’idea germoglia quasi improvvisamente da un’altra. I synth guidano “Recipe”, dove Tirzah prova a scappare dalle proprie paure fuggendo nella sua stessa voce, e la più luminosa “Hive Mind”, che vede la collaborazione di Sey. Tiepide e magiche, le composizioni di Colourgrade sono preghiere profane che però non ambiscono a diventare richieste di salvezza o perdono ma, umane troppo umane, mettono a nudo i timori, le debolezze e i dubbi di ciascuno di noi, che Tirzah sa descrivere con una naturalezza disarmante. Proprio attraverso la musica essi diventano in qualche modo motivo per provare a restare speranzosi e tenaci.

11) Dry Cleaning – New Long Leg

New Long Leg è uno dei debutti più convincenti e solidi degli ultimi anni; coesa e ruggente, la musica dei Dry Cleaning conquista dal primo all’ultimo minuto attraverso scariche di elettricità elettrizzanti che si materializzano in ritmi e performance vocali che aggrediscono l’ascoltatore con una grinta e una verve d’altri tempi. La brillantezza e l’energia di Florence Shaw popola ogni brano con un’autorevolezza impressionante, e gli approcci del gruppo che le ruota intorno sono altrettanto coraggiosi. Piena di geniali invenzioni liriche, da alcuni divertenti versi di “Strong Feelings” a quelli alienanti e psicanalizzanti di “More Big Birds”, una ballata atipica dai sapori folk-punk, il debutto del quartetto post punk londinese è una vera e propria rivelazione. “But I can rebuild”, canta Shaw nell’opener “Scratchcard Lanyard”, uno dei brani più affascinanti dell’intero album, che sembra ricostruire un nuovo impianto semiologico in un mondo dove la crisi sanitaria e politica costringe a ripartire da zero e a ripensare ogni cosa. Che si tratti della levigata “A.L.C.” o dell’inquieta “John Wick”, la voce di Shaw più che cantare recita, mentre le chitarre dipingono un paesaggio glaciale che si forma pian piano.

10) Cassandra Jenkins – An Overview on Phenomenal Nature

An Overview on Phenomenal Nature è una riflessione rincuorante e dolcissima sui misteri e i segreti della nostra vita nel mondo e sulla natura di ciò che ci è intorno. Cassandra Jenkins tratta la materia con un tatto e una sensibilità rarissime, associando tematiche anche tragiche a una musica che, invece, rasserena e che sembra sorprendersi della bellezza e della stranezza di tutto quello che ci circonda, meravigliandosi di ciò come un bambino che la prima volta fa esperienza di ciò. Le sette canzoni che compongono l’opera sono polaroid piene di nomi, voci e luoghi. Essi popolano ciascun brano con vitalità e con mistero, dando vita a un folk ancestrale e romantico che la voce ipnotica e sussurrata di Jenkins catapulta quasi fuori dal tempo umano pur raccontando vicende e storie totalmente umane, come avviene nella splendida “Hard Drive” o nell’epica “The Ramble”. Attraversato da solitudine e lutto, An Overview on Phenomenal Nature pare volerci ricordare che niente è mai perduto del tutto.

9) The War on Drugs – I Don’t Live Here Anymore

Adam Granduciel e soci colpiscono ancora nel segno. Il quinto album dei The War on Drugs è l’ennesimo passo avanti del gruppo: solido e ben prodotto, il suo vivace synth-rock non sfigura di fronte ai precedenti lavori della band, neppure se posto accanto all’eccezionale Lost in a Dream. I dieci pezzi che compongono I Don’t Live Here Anymore, ispirati e convincenti, sono scritti con mano attenta dal loro autore, il quale sembra mettere la propria nuda anima in ognuno di essi. E i ricordi, i personaggi e i colori che li popolano lo dimostrano, dal momento che prendono vita in modo nitido e chiaro davanti ai nostri occhi non appena compaiono in scena. Sono flash improvvisi che squarciano il buio o sono scene costruite con cura e pazienza nel dipanarsi del pezzo. Il narratore è una “creature void of form”, rivive esperienze eccezionali, “like when we went to see Bob Dylan”, è ossessionato dalla propria corporeità, che lo limita e lo inquieta, e da una necessità tremenda di cambiare. Quando in “Occasional Rain” Granduciel canta “You’ve been moving much too fast” capiamo che qualcosa ci sfugge e proviamo a inseguirlo senza mai catturarlo.

8) Turnstile – Glow On

Nei suoi trentaquattro minuti esplosivi e laceranti, Glow On è il disco che certifica i Turnstile come uno dei più grandiosi fenomeni musicali hardcore degli States di oggi. Ed è ben difficile, e chiaramente inutile e limitante, provare a etichettare il genere dei Turnstile, che riescono a profondere nelle loro composizioni hardcore, post-punk, post-hardcore e persino pop-rock. È un disco che riesce a colpire sin dal primo ascolto nonostante la sua complessità ed è anche il passo più ambizioso fino a oggi della band di Baltimore, che decide di squarciare l’aria con un approccio coraggioso e con un marchio di fabbrica estremamente originale. Si finisce per canticchiare la nevrotica “Don’t Play” e la scanzonata e aggressiva “Holiday” con un trasporto e una convinzione sinceri, trascinati come si è dalla voce, dai cori, dalle melodie sempre brillanti e dalla verve inimitabile del gruppo. Glow On è un assalto avvolgente dall’inizio alla fine.

7) Tyler, the Creator – Call Me If You Get Lost

Il rap ordinatamente caotico di Call Me If You Get Lost è la miglior risposta che Tyler potesse dare a chi si domandava quale direzione avrebbe preso la sua carriera dopo l’eccezionale IGOR. Tyler, chiaramente, va dove vuole e non chiede permesso. Proprio quando molti si attendevano da lui ulteriori discese nel pop e nell’R&B dà vita a un album nel quale cavalca il suo talento nella maniera più pura e sincera possibile. Non si pone freni e canta di tutto ciò che desidera, si diverte e diverte e si concede riflessioni significative e profonde. “Everyone I ever loved had to be loved in the shadows”, afferma con devastante schiettezza in “Massa”. Ogni dettaglio è perfettamente curato. Come al solito Tyler gestisce brillantemente gli ospiti di cui si circonda e sfrutta al massimo la sua capacità di colorare con estrema originalità i più svariati mood mentre di volta in volta si muove su background molto diversi tra loro, dal jazz al soul, dall’R&B al reggae, e il suo flow è più graffiante che mai.


6) The Weather Station – Ignorance

Maestoso ed etereo, Ignorance è l’opus magnum dei The Weather Station. La band capitanata dalla cantautrice canadese Tamara Lindeman colora la solitudine e la tristezza dei paesaggi e delle situazioni che descrive di melodie accattivanti e oniriche, rese indimenticabili da arrangiamenti levigati e magniloquenti e dalle emozionanti performance vocali di Linderman. Sorto in una terra di mezzo magica e brumosa, Ignorance, quinto album in studio della formazione, si configura come una gemma pop prodigiosa e ambiziosa che, nel suo incedere calmo e jazzato, segue le orme di Joni Mitchell non disdegnando la lezione di Kate Bush e osservando con attenzione anche il panorama musicale contemporaneo, che nella illustre Phoebe Bridgers offre spunti notevoli. Nati dalle riflessioni condotte da Lindeman sulla crisi climatica che sta imperversando, i dieci brani che compongono il disco sono un raggio di luce nel gelido buio che attraversa un mondo ferito e morente. Il suono estremamente limpido, rifinito e ricercato prova a costruire un universo nuovo, che tenta di stabilizzarsi sui cocci delle false certezze di un tempo. Così, quando Linderman canta “I never believed in the robber” riguardo all’appropriazione da parte degli europei delle terre del continente americano, non sta costruendo solo un’alternativa ma, soprattutto, un nuovo modo di intendere e di vivere la consapevolezza.

5) Snail Mail – Valentine

Il sophomore album di Snail Mail è la perfetta prosecuzione del suo debutto, Lush, un disco percorso da fragilità, indecisioni e sfoghi rabbiosi attraverso i quali il carattere e la sensibilità di Lindsey Jordan emergevano con imponenza e veemenza; quegli sfoghi e quelle fragilità, anzi, esorcizzati nella musica forgiavano la personalità stessa della cantautrice. Valentine è già un disco maturo, cosa che può sembrare assurda dal momento che Jordan ha appena ventun anni. Eppure tutto qui dentro è filtrato e descritto come solo una donna coraggiosa, di spessore e di talento potrebbe fare. Tutto è assemblato splendidamente: le melodie perfette, le scariche di adrenalina rock, l’elettricità e i ritmi turbinosi, le ballate romantiche, analisi impietose e schiette di dolori e di speranze deluse, i momenti più catartici, i momenti più intimi. Dalla impetuosa “Valentine” e dalla altrettanto pungente “Ben Franklin” alle dolcissime e confessionali “c. et al.” e “Mia”, dal romanticismo poetico di “Light Blue” alla vigorosa “Automate”, Valentine è territorio di rivelazioni e di liberazioni, un universo di spontaneità e di emozionalità che l’ampia strumentazione e la voce roca e corrosiva di Jordan interpretano perfettamente. Valentine parla di cuori infranti e lo fa con grinta e con rabbia.

4) Jazmine Sullivan – Heaux Tales

In poco più di mezz’ora Jazmine Sullivan fa il punto della situazione: cosa può essere il soul-R&B e quale il suo rapporto con l’hip-hop in una fase liminare com’è quella presente, dove tante voci autorevoli del genere sono in silenzio, in attesa, forse, di ritornare sulle scene con nuovi lavori? La proposta che Jazmine Sullivan costruisce nelle quattordici tracce di Heaux Tales è convincente e incisiva: ripartire sempre e comunque da dove ci si era fermati e costruire qualcosa di nuovo partendo ogni volta dalle salde radici culturali che la black music statunitense non potrà mai tradire. A sei anni dal suo precedente lavoro la maturazione di Sullivan è impressionante: si tratta di una crescita lacerante e prodigiosa che si manifesta in prestazioni vocali animose e nella stupefacente coerenza tra background musicali, strumentazione, cori e testi, un mix armonico e tematico davvero audace grazie al quale Sullivan mette in mostra senza alcun timore le sue paure, le sue debolezze e la sua combattività.

Il piano personale, che percorre trasversalmente tutti i brani dell’album, si incrocia ben presto con quello filosofico e persino con quello socio-politico, sul quale una black woman americana della personalità e del talento di Sullivan non può non condurre riflessioni rilevanti e acute. Sullivan si cala in ogni brano con una lucidità e una vivacità straordinarie, senza rinunciare a trattare gli argomenti con passione viscerale e con un animus pugnandi decisamente infuocato. L’amore in tutte le sue forme, quello che deve ancora venire ma anche e soprattutto quello tossico, totalizzante e per certi versi pericoloso, è materia d’esame in quasi tutta l’opera. Ma dal particulare si passa rapidamente all’universale, talvolta alla lettera, talvolta allegoricamente, e spazi intimi e sicuri come “On It”, un gospel caldo e fatato, e come la frizzante “Price Tags”, con Anderson .Paak, si trasformano ben presto in occasioni perfette per condurre una serie di considerazioni sul ruolo della donna – quella black, chiaramente – all’interno di relazioni che spesso si tramutano in un vero e proprio inferno. Ed è proprio in queste riflessioni, come anche nei preziosi interludi che include, che Heaux Tales, come un romanzo di Zora Neale Hurston o di Toni Morrison, evidenzia tutta la sua carica rivoluzionaria e, per certi versi, eversiva.

3) Low – Hey What

Si pensava che con i frammenti alieni di Double Negative i Low avessero raggiunto un punto di non ritorno; e così è stato, in effetti. Quel disco, che ha da poco compiuto tre anni, ha di fatto imposto alla pluriventennale band un nuovo percorso. Un percorso che, in realtà, sembrava inevitabile sin dagli esordi, attraversati in nuce da accenni a tutte le successive trasformazioni che il gruppo avrebbe effettuato, cariche di mistero e di sinistri presagi. Quel gruppo così difficile da classificare è ora diventato a tutti gli effetti un duo. E proprio in situazioni come queste Alan Sparhawk e Mimi Parker sprigionano tutta la loro primigenia energia; cercando forse di entrare in contatto con spiriti da tempo scomparsi o con civiltà tramontate proseguono il loro personalissimo viaggio all’insegna della decostruzione del rock, della sua forma-canzone e dei suoi suoni-tipo.

Proseguendo in un iter dialettico di sperimentazione e dialogo con vari generi e stili, i Low attenuano o amplificano, destabilizzano o espandono le tracce vocali, le chitarre e i tappeti sonori, conducendo melodie celestiali verso cavernose frequenze, rumori di fondo, percussioni demoniache e tanto altro. Ritmi dall’oltretomba iniziano il viaggio verso l’Empireo attraversando un purgatorio di suoni che sembrano formarsi nelle nostre orecchie man mano che il viaggio continua. Si dipingono paesaggi lunari. I Low provano da sempre a dare una forma al vuoto: Hey What non fa eccezioni. Anche grazie al fondamentale apporto del produttore BJ Burton il tredicesimo lavoro dei Low sembra trattare i suoni – le voci di Sparhawk and Parker, gli assoli di chitarra, le frequenze sinistre, i feedback ruggenti – tutti allo stesso modo: l’inizio a cappella di “Days Like These”, che dà vita a una melodia luminosa, seguito da una chitarra altrettanto vivida, sfocia ben presto in vocalizzi e passaggi strumentali distorti, dei quali il ripetuto “again” nel finale diventa quasi correlativo oggettivo; non c’è soluzione di continuità neanche nella splendida “All Night”, dove i falsetti effettati dei due, inizialmente purissimi, si fondono con un panorama sonoro desertico e buio che è insieme confortante e alienante, cosa che avviene anche nei turbolenti ricami elettrici di “Disappearing”. Da un momento all’altro potrebbe giungere, deus ex machina, una comunicazione da parte di qualche popolazione che vive in un’altra galassia.

2) Floating Points; Pharoah Sanders; The London Symphony Orchestra – Promises

Promises è un viaggio senza confini temporali e spaziali, una missione interstellare che in nove movimenti parcellizza sonorità soavi inscrivendole in una mappa astrale che finiamo per seguire fideisticamente, una preghiera laica che sembra disegnare potenziali vie di fuga dai fantasmi che ci perseguitano. La musica di Pharoah Sanders è sempre stata estremamente spirituale. Una spiritualità che ognuno può abbracciare e vivere come meglio crede, perché gli spazi di libertà che il sassofonista concede sono ampi e altrettanto lo sono le strade entro cui sviluppare il proprio rapporto con la sua musica.

Nel 2020, l’anno in cui ha compiuto i suoi ottanta, Pharoah Sanders inizia a lavorare con Sam Shepherd, il musicista elettronico noto come Floating Points. Shepherd compone la musica della pièce e decide di affidarsi a un’orchestra per eseguirlo. Shepherd cuce addosso a Sanders un vestito perfetto, che il sassofonista indossa con eleganza e con gusto; segue il sentiero tracciato ogni volta che vuole e altrettanto spesso se ne discosta, dando lui una nuova direzione ai segmenti elettronici e all’orchestra. Il sassofono di Sanders sembra esplorare il mondo nuovo e sublime che Shepherd gli ha costruito con la curiosità di chi sa che può esperirlo come fosse un regalo; è lui, infatti, che, trattando questo prezioso dono con cura, lo plasmerà ulteriormente, conducendolo ogni volta dove più desidera, attraverso il suo sassofono e la sua voce, con il sassofono che si fa, inoltre, vera e propria voce del musicista. Il connubio di elettronica e jazz non è mai stato così innovativo e così delicato. L’ambiente costruito da Shepherd e dalla London Symphony Orchestra viene attraversato dalla saggezza e dalle emozioni di Sanders, e dopo il suo passaggio niente è com’era prima.

1) L’Rain – Fatigue

In mezzo alle rovine che stiamo calpestando, quelle di società e di forme di governo che paiono in qualche modo aver esaurito la loro funzione, le loro energie e la loro carica d’innovazione e di persuasione nei confronti dei loro stessi popoli, qualcosa che fino a pochi anni fa ci sembrava ancora lontano, non impossibile ma alquanto improbabile, e nel mezzo di una crisi sanitaria, sociale e politica, ci muoviamo a tentoni cercando di lasciarne intatte le preziose ed evocative nicchie archeologiche e di schivarne i cocci disseminati qua e là, che, se calpestati, feriscono.

Ascoltare Fatigue, le sue inebrianti fughe R&B, le sue pulsazioni soul, le sue improvvise aperture al pop, le sue frequenze distorte, i suoi balbettii malinconici, la sua perenne afasia, è come attraversare i passages di Parigi sul sorgere del secolo scorso o, per essere ancor più precisi, è come percorrere l’omonima epopea in fieri, indefinita e infinita, di Walter Benjamin, opera aperta ante litteram, disorganica e discontinua, che brilla e s’infiamma per la sua stessa natura frammentaria, che si nutre della sua ineffabile fragilità. Ripercorriamo un papiro che contiene ciò che resta di una poesia di Saffo e restiamo sbalorditi. Appesa a un filo com’è, ci stupiamo anche solo della sua esistenza, del poco che ne resta, del suo umile sopravvivere, del suo arrivare a noi, sballottata e malconcia, della sua capacità di adattarsi, come la ginestra leopardiana, a ogni colpo di vento, a ogni colata di lava, a ogni giravolta della storia.

Come il protagonista del celebre episodio “Time Enough at Last” di The Twilight Zone (1959) noi che ci avviciniamo all’ascolto di Fatigue siamo gli ultimi sopravvissuti di un mondo disabitato a causa di un disastro nucleare. Abbiamo di fronte a noi tutti i suoni esistenti – come lui aveva a disposizione qualsiasi tipo di libro –, ma una sorte beffarda ci ha resi improvvisamente sordi. Incapaci, quindi, di recepirli, restiamo immobili a contemplare il nostro triste destino e quel panorama di segni per noi indecifrabili. Guardiamo quello spettacolo come il saggio che, secondo Epicuro, vive sereno nella sua atarassia in modo non diverso da chi, sulla terraferma, al sicuro, osserva sollevato il mare in tempesta. In realtà qualcosa ci muove: ne siamo colpiti, rimaniamo sbigottiti, ma non siamo più in grado di interpretare quello che sta accadendo.

(Samuele Conficoni)