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Scade oggi la prima metà dell’anno, e come è ormai consuetudine da queste parti, abbiamo chiesto alle firme di Kalporz di indicarci il loro album preferito fino ad ora. C’è spazio per tutti i gusti.
Youth Lagoon, “Rarely Do I Dream”
Che cos’è la poesia? È la capacità di esprimere un sentimento con le parole (o la musica) che ti accorgi che non saresti mai riuscito a dire. È una sensibilità spiccata, è il dono di cogliere l’inesprimibile. Youth Lagoon con “Rarely Do I Dream” ci è riuscito: l’album è come una istantanea scolorita ma viva, voci del passato si rimaterializzano e sembra che i filmini di famiglia siano i tuoi, non quelli di Trevor Powers. Estrema delicatezza, incantevoli melodie. Pianoforti sublimi. Insomma, poesia.
— Paolo Bardelli
YHWH Nailgun, “45 Pounds”
L’album di debutto dei newyorchesi YHWH Nailgun, “45 Pounds”, è un’opera fumosa e spigolosa che flirta con il post punk, l’hardcore e addirittura il funk. Sperimentale e inquieto, il rock che caratterizza “45 Pounds” esplora il dolore, il senso di vuoto e la tragica indifferenza che permeano il mondo in cui viviamo, temi trainanti nell’universo dei generi che la band tocca. Al centro ci sono i differenti registri del cantante Zack Borzone, la cui voce rauca e incisiva vive le canzoni con vigorosa vitalità, le claustrofobiche pulsazioni dei synth di Jack Tobias, le trafelate spinte chitarristiche di Saguiv Rosenstock, che insieme ai synth creano un tappeto sonoro palpitante, e il ficcante e poderoso approccio ritmico di Sam Pickard. Ci sono episodi avvolgenti come “Castrato Raw (Fullback)” che suonano come allarmi improvvisi e spiazzanti in mezzo a un universo apparentemente calmo. In brani come “Iron Feet” e “Blackout” la tensione cresce grazie a una climax soffocante durante la quale la voce e gli strumenti paiono frammentarsi. Le canzoni che compongono “45 Pounds” sembrano gli ultimi relitti di un mondo ormai disabitato.
— Samuele Conficoni
Little Simz, “Lotus”
Partiamo da un presupposto: è stato un buon semestre, per la musica. I candidati per questo parziale Award erano tanti, ma alla fine il premio va a un album che non ha neanche compiuto un mese e che sto letteralmente consumando da un paio di settimane: “Lotus” di Little Simz. Per l’artista londinese è stato l’album più umanamente difficile: la traumatica rottura con Inflo – produttore, polistrumentista e soprattutto prezioso collaboratore per gli ultimi (ottimi) lavori di Simbi – è coincisa con un nuovo inizio e una nuova ricerca di autoconsapevolezza, in un percorso che non è stato semplice né lineare, ma che alla fine si è pienamente compiuto. Little Simz ha ritrovato le sue certezze, è ripartita da nuove figure come Miles James (Kokoroko) e ha radunato tanti ospiti di spessore, alcuni dei quali già presenti nei lavori passati. Il risultato finale è un prodotto che trascende ancora i confini dell’hip hop, fra le già familiari influenze soul e un rinnovato gusto jazz, e anche grazie a più robuste incursioni in territori afrobeat e alle sorprendenti divagazioni post punk: tanti, tantissimi elementi, dunque, ma sintetizzati sempre con sapiente equilibrio. Il resto lo fanno i testi e la potenza espressiva di una voce ormai sempre più riconoscibile e capace di cambiare registro senza mai perdere credibilità. Forse più che mai vicina al capolavoro “Sometimes I Might Be Introvert”, Little Simz riafferma il suo status di migliore rapper al mondo.
— Piergiuseppe Lippolis
Saya Gray, “SAYA”
Difficile, come sempre scegliere un disco: anche se sembra sempre più un lanciare una voce in un vuoto siderale, sommersi da ondate di nostalgia, pop nella sua peggiore accezione (quello usa e getta, di cui non rimane traccia) e da questa fotografia forse sbagliata che mantenere viva la fiamma della scoperta e della curiosità sia una impresa vana. Eppure c’è vita, eccome se c’è vita: scorrendo generi e nomi in questi primi sei mesi sono usciti diversi dischi solidissimi, interessanti e sorprendenti (da Benjamin Booker agli esordi di Heartworms e Goddess, dagli ottimi ritorni di Pulp e Patrick Wolf fino alle riuscitissime e coraggiose imprese di cambiamento di Bdrmm, Car Seat Headrest e molto altro ancora). Se c’è un disco che sembra poter provare a mettere d’accordo tutti, ma davvero tutti, è però il secondo di Saya Gray, canadese di madre giapponese, perfetto mix tra contemporaneità, studio classico e pop d’autore. Il fatto che sia stata scelta per il prossimo Club To Club di Torino ci dice molto: nella delicatezza di una voce eterea, la nostra Saya riesce perfettamente a nascondere una certa grinta rock (vedi la prima Thus is Why), istanti di bellezza elettronica (la seconda parte di Line Back 22) e abbozzi di quasi country pop di bellezza accecante, come in Shell (Of a Man). E sono solo i primi tre brani di un disco vario e interessante, perfettamente compiuto e stimolante. Alla faccia della vecchia guardia e delle sperimentazioni fini a sé stesse: Saya Gray tiene in piedi tutto e porta a casa un gran bel disco, al momento il più illuminante dell’anno.
— Alessio Falavena
Eliana Glass, “E”
“E”, disco di debutto di Eliana Glass (pubblicato dalla Shelter Press), è un esordio discografico meritevole di attenzione: il percorso della cantante, pianista e artista visiva di origini australiane/neozelandesi cresciuta a Seattle è estremamente personale: viene dal jazz (vocale) ma sfida i canoni stilistici del genere. Nel nostro approfondimento per la rubrica Scoutcloud abbiamo ricostruito/discusso il suo approccio creativo: «Al centro del discorso compositivo la Glass riesce […] a porre la ricerca sonora della propria voce che è, come non mai, uno strumento vero e proprio. Il suono del pianoforte, talvolta, sembra quasi un’estensione dello strumento voce, è il caso di una traccia come “Shrine”: registrazione simultanea di voce e piano e sovrapposizione di un’altra voce (sempre della Glass, ovviamente). Si potrebbe parlare – quasi – di un unico flusso indissolubile ed essenziale perché tutte le componenti del quadro sonoro sembrano girare attorno alle traiettorie della voce, ne seguono le tracce, i riflessi. Questa danza di elementi è più minimale nei brani solo piano e voce “Flood” e “Solid Stone” o più ricca di sfumature in pezzi più compositi come “Good Friends Call Me E”, brano impreziosito da contrabbasso e batteria».
— Monica Mazzoli
Judith Hamann, “Aunes”
In questa sua nuova uscita solista, Judith Hamann riesce a catturare con una attitudine essenziale l’estetica e le pratiche della musica elettroacustica contemporanea. I brani, che girano innanzitutto intorno al suono del violoncello, strumento prediletto della Hamann, presentano andamenti semplici e con pochi suoni: voce, organi, synth, field recordings. A colpire è proprio questa essenzialità che lascia che risaltino i caratteri fondamentali della musica di Hamann, la sua vena melodica e la sua attenzione alla componente timbrica, senza sovraccaricare di informazioni l’ascoltatore. Un disco in cui quindi riescono a convivere ricerca e delicatezza, con un suono chiaro che si apre a vari livelli di lettura.
— Matteo Mannocci
Saba & No I.D, “From the Private Collection of Saba and No I.D”
Non capita spesso di vedere un rapper indipendente, appena trentenne, unire le forze con una leggenda della produzione hip hop come No I.D., classe 1971, per un progetto così ambizioso. Eppure è proprio in questo incontro generazionale tra il rapper Saba e il leggendario producer No I.D. che nasce una masterclass di conscious e jazz rap: il loro primo album collaborativo è infatti un ponte tra old school e new school, tra storytelling emotivo e banger contemporanei, il tutto guidato da un gusto melodico sempre presente. From The Private Collection of Saba and No I.D. è un lavoro ricco di sfumature che conferma Saba come uno dei narratori più profondi della sua generazione e No I.D. come un produttore ancora capace di reinventarsi.
— Aureliano Petrucci
Ada Oda, “Pelle d’oca”
Se consideriamo che l’estate mi rende ancora più umorale, che prima o poi c’è una prima volta per tutto, che alla fine è bello sorprendersi, che una classifica di metà anno non può non essere influenzata da una certa stagionalità tipicamente da spiaggia, allora ecco qui l’album che ho ascoltato di più in questi primi mesi di 2025: è “Pelle d’oca” degli Ada Oda. Secondo album – nonché ultimo, dal momento che la band ha annunciato lo scioglimento proprio contestualmente alla sua pubblicazione – di questo quintetto italo-belga che mescola con sorprendente e sbilenca disinvoltura post-punk e melodie pop all’italiana. Una specie di diario dell’età tardoventenne in una mezzora di rocambolesche virate emotive, tra leggerezza spensierata e piccoli disastri sentimentali, autoironia allo specchio e fallimenti di cui pentirsi per il resto della vita.
— Enrico Stradi
Bad Bunny, “DeBÍ TiRAR MáS FOToS”
Mentre gli USA vivono uno dei periodi più bui e inediti della loro storia, Bad Bunny passo dopo passo porta la voce di Porto Rico e di milioni di latinos di ogni parte del mondo alla conquista del pianeta.
“DeBÍ TiRAR MáS FOToS”, dopo una serie di album molto potenti e intriganti che hanno dato una dimensione d’autore alla musica ispanica del presente e del futuro, è un’opera ancora più ambiziosa in cui il trentunenne Benito Antonio Martínez Ocasio trasforma il sound inconfondibile in un compendio di sonorità della tradizione latina, come il jíbaro, la plena e la salsa, rivisitato attraverso produzioni contemporanee sempre a cavallo tra dembow e reggaeton. Il risultato è un’ora di hit e suggestioni che già segnano l’immaginario collettivo.
— Piero Merola