Fragore e nostalgia: Arab Strap e Daniela Pes a Ferrara sotto le Stelle

Live report: Arab Strap + Daniela Pes @ Cortile del Castello Estense, Ferrara Sotto le stelle, 9 Settembre 2023

Quando entra sul palco Daniela Pes la musica è già partita da un paio di minuti, una lunga introduzione proveniente direttamente da “Spira”, album d’esordio uscito qualche mese fa.

Non dice una parola, non ne dirà nessuna.

Un’oretta dopo, quando salgono sul palco Aidan Moffat e Malcom Middleton, ovvero gli Arab Strap, formazione di culto del rock scozzese, salutano e già, insolitamente, erano stati sul palco, in particolare Moffat, per ultimare il check degli strumenti, qualcosa che normalmente si fa solo nei primi anni di carriera e che invece finiscono per fare ancora da soli, perlomeno stasera.

Li prendiamo in parallelo, piegando il tempo come ci ha insegnato il regista Christopher Nolan, perché è necessario a volte uscire dal classico report che racconta l’artista principale, lo omaggia e dimentica tutto il resto.

Anche perché quando finiscono, se prendiamo in maniera arbitraria le sensazioni personali, a vincere con il boato è la Pes, mentre per gli Arab Strap la sensazione è più di “thank you” reciproco, da pubblico a artista, da artista a pubblico.

L’occasione della serata è la terza ed ultima di questo secondo troncone dello storico festival di Ferrara, una entusiasmante tre giorni che ha portato Fatoumata Diawara, Trentemoller e oggi una speciale performance integrale di “Philophobia” secondo disco del duo di Falkirk, piccola cittadina curiosamente nell’esatta metà tra Edimburgo e Glasgow, per omaggiarne i 25 anni.

I due scozzesi nel mezzo, Daniela Pes, invece, di origine sarda, separata dalla terraferma e aliena, totalmente scollegata da quello che sarebbe il cantare in Italia.

L’entusiasmo maggiore sarà per lei alla fine e la performance, in effetti, è incredibile.

Di “Spira” si è parlato non poco, ma senza lambire nessun confine popolare se non quelli di chi cerca scoperte e nicchie nuove e nel giro di due o tre pezzi si aprono cellulari e ricerche online tra il pubblico: una esperienza live totalizzante, l’album eseguito quasi per intero tra basi sintetiche, e strumenti  digitali su cui la voce che si insinua potente, ammaliante, magnetica.

Una esperienza sciamanica: qualcosa del primo Thom Yorke solista (quello di The Eraser), qualcosa della Bjork futurista, tracce di natura, ambiente e parole della Sardegna compongono un mix fuori da quello che normalmente si ascolta, eppure sono tutti conquistati e alla ricerca di informazioni.

Se “Spira” è scoperta, “Philophobia” è invece omaggio e in questo senso è inevitabilmente inferiore, nella sua esecuzione.

Non che manchi niente: un disco di (piccolo) culto, la voce a metà tra cantato e recitato di Moffat, immutata e iconica, le trame elettriche alla chitarra di Middleton regalano una prima ora appassionata quanto, un po ‘ di maniera.

Sono solo quelle belle vecchie canzoni sono, racconta Moffat, brani di buoni e cattivi comportamenti, sono sentimenti, bevute, separazioni, pensieri, sono affreschi di realtà quotidiana, soprattutto di buoni e cattivi esempi.

Sarà il fragore emotivo dell’apertura, ma ogni tanto sembra mancare qualcosa, ma arriverà: terminato il disco, c’è spazio per i bis e ci sono tre canzoni, direttamente dal corso più recente della band, compreso l’ottimo “As Days Get Dark” e quella intro ““I don’t give a fuck about the past, our glory days gone by / All I care about right now is that wee mole inside your thigh” che ce li ha riconsegnati più in forma di prima, prima di quella apparente fine artistica durata diversi anni.

E lì, pochi minuti, si scorge il duo scozzese per come è oggi, più corposo nella parte musicale, più vicino all’indietronica che al postrock, più deciso nel cantato e forse, semplicemente, più a suo agio nel raccontarsi nell’oggi, più che nell’omaggio al passato.

Ecco, con “The turning of our bones” la sensazione è che sia diventato possibile appaiare quello che avevamo visto prima e allora di nuovo, dissolviamo il tempo, facciamo diventare l’inizio una conclusione.

Esibizione sontuosa, quella di Daniela Pes, un filo più di trent’anni e un primo disco prodotto da Iosonouncane, completamente illogico nella forma musicale eppure così potente da candidarsi senza indugi a diventare una delle uscite dell’anno e a godere, potenzialmente di uno sguardo anche verso l’estero, grazie ad una potenza sonora che dal vivo si esprime senza nessun timore, esplodendo tanto da far pensare che sia la sua dimensione ideale.

Carme, Arca, Lairà, tutti i brani coinvolgono e in qualche caso brillano di luce accecante.

Una volta di più, una serata splendida per Ferrara sotto le Stelle e, una volta di più, il messaggio è chiaro: quell’intensità capace di far emozionare arriva dal contemporaneo, più che dal passato e dalla nostalgia.

Ricorderemo così la barba di Aidan Moffat e di questa strana creatura, gli Arab Strap, che pure sembrano quasi più vitali e moderni oggi, che quando suonano per omaggiare il loro passato.

E ricorderemo la prima volta che abbiamo visto Daniela Pes dal vivo, spesso piegata verso il tavolo basso, a spingere sintetizzatori e poi a cantare senza indugi, per poi accennare un inchino alla fine e dire grazie, lontano dal microfono, a far rimanere di sé solo la perfomance, senza spazio per la persona.

Traiettorie diverse, età diverse, discografia opposte: eppure, a metterli assieme, ci è parso di vedere artisti nudi sul palco, senza filtri.

E quello che abbiamo visto ci è piaciuto non poco.

(Alessio Falavena)