SANTIGOLD, “Spirituals” (Little Jerk, 2022)

La cancellazione del suo tour nordamericano, annunciata su Instagram lo scorso 27 settembre, è stata una doccia fredda per tutti i fans di Santigold. Anche perché non è stata del tutto chiara: si cita che dopo 2 anni di inattività e mancanza di introiti i concerti dovevano essere la soluzione (anche per via dei pochi guadagni da streaming) ma che c’è attualmente una sovrabbondanza di artisti in giro che prenotano gli stessi locali, c’è l’inflazione, la benzina costa cara, eccetera eccetera. Mancava che citasse l’invasione delle cavallette. “E quindi?”, verrebbe da dire. Un ragionamento appassionato ma molto negativo, senza soluzioni. Ed è un peccato perché l’artista di Philadelphia sembrava aver affinato lo stile in questo suo nuovo “Spirituals”, dopo un decennio – quello degli anni Dieci – in cui non era riuscita a imporsi definitivamente: dopo il sorprendente esordio del 2008, in “Master of My Make-Believe” (2012) non aveva infatti trovato nuove soluzioni (a parte la fantastica “Disparate Youth”) e si era “leccata le ferite” con “99¢” (2016). E se “I Don’t Want: The Gold Fire Sessions” (2018) è stato il classico prodotto interlocutorio, è proprio con questo “Spirituals” che Santi ha con forza messo insieme tutto il suo spirito e le sue diverse influenze e tematiche in un album convincente, per cui – tornando al discorso dell’inizio – meriterebbe di essere veicolato al meglio, con concerti dappertutto.

Il titolo, innanzitutto: la parola “Spirituals” si citano naturalmente i canti neri che aiutavano a superare le difficoltà di essere schiavi, e Santi specifica a RS che anche per lei questo album l’ha aiutata a essere forte: “L’ho scritto in modalità di sopravvivenza a Los Angeles e l’ho prodotto in un piccolo studio nel mezzo della foresta del Canada occidentale durante il Covid. Le proteste per la giustizia sociale erano in corso, gli incendi bruciavano la California e la polizia sparava alla gente. Avevo dei bambini piccoli e dovevo essere mamma, moglie, umana e artista”. Ma più che il titolo è la copertina che definisce ancora meglio questo lavoro: una foto mossa in cui il volto di Santigold si contorce fino a diventare un’immagine di Francis Bacon o uno zombi, che in ogni caso rappresenta un’artista in movimento, sfuggente, fuggevole, inafferrabile.

E altrettanto movimentati sono i brani che passano dallo swing-soul travestito di dubstep di “Shake” e dall’elettro-gospel “Ain’t Ready”, entrambi realizzati con la collaborazione di SBTRKT, al ritorno di fiamma con la new-wave della fantastica “Fall First” (una bomba di canzone, il cui video è dimezzato in durata in modo da renderla ancora più esplosiva) e del primo singolo “High Priestess”, quest’ultima dalle tinte quasi vodoo, con in mezzo l’ukulele-dub di “My Horror” e il nu-pop di “Witness”, in cui fa stranamente capolino l’autotune (e il risultato non è neanche male). Quello che colpisce è la forza di canzoni che trasmettono la voglia di Santigold di comunicare, di entrare in contatto con l’ascoltatore in maniera forte, senza sconti, in un modo quasi carnale.

Per questo la rinuncia al tour della cantante colpisce, perché in fondo è un ritrarsi quando lei aveva lanciato un grido di lotta. Concentriamoci dunque solo sull’album e sul suo significato: liberiamo le nostre anime e combattiamo, è il momento di farlo.

77/100

(Paolo Bardelli)