TYLER, THE CREATOR, “CALL ME IF YOU GET LOST” (Columbia, 2021)

Sembrano passati pochi anni, ma ci siamo ormai lasciati alle spalle dieci anni da quando l’irriverente e pazzoide elfo in Vans della Odd Future, allora ventenne, aveva deciso di intraprendere una fruttuosa attività da solista, come il resto della gang che oggi a buon diritto possiamo definire come la più influente del nuovo secolo.
Anche Tyler, come i suoi vecchi colleghi con i quali tuttora è un grande amico e collaboratore, è diventato prima del tempo più semplicemente Tyler e non una derivazione di quel progetto collettivo che più di tanti altri ha contribuito a rendere il nuovo hip hop un fenomeno artisticamente trasversale rigenerando in chiave contemporanea l’estetica street.
Dieci anni di provocazioni, di trovate geniali e di tracce indelebili hanno reso il suo volto un’icona inconfondibile quanto quel suo timbro rauco e opaco.

Se si dovesse spiegare a un neofita cosa differenzia un album da un mixtape non ci sarebbe scelta più sbagliata che portare l’esempio di Tyler: di fatto il suo primo mixtape “self-released” e autoprodotto, datato 2009, è “Bastard”, ma lui stesso lo considera a tutti gli effetti un album. Ed è francamente difficile dargli torto se si considerano i sei album che seguiranno, a partire dal generazionale “Goblin”, quello di “She” e “Yonkers” dove comparivano quasi tutti i suoi soci: Frank Ocean, Hodgy Beats, Jasper Dolphin, Taco, Domo Genesis, Mike G e Syd.

Con una cadenza rigorosa di un disco ogni due anni, Tyler, the Creator ha pubblicato album che per libertà espressiva e approccio “autentico” e slegato da logiche promozionali sembrano dei mixtape e mixtape “venduti” come album.
Il sesto album “CALL ME IF YOU GET LOST” arriva dopo due album tecnicamente perfetti come “Flower Boy” quello della sua svolta “solare”, fluid e forse definitivamente “mainstream” e il più cervellotico “Igor” (che abbiamo eletto miglior album del 2019), le cui registrazioni peraltro erano state completate prima di “Flower Boy” regalandoci un album concettuale votato alla tradizione soul con momenti d’annata quasi psichedelici.

Come al solito la platea di ospiti e collaboratori lascia annichiliti: Lil Uzi Vert, Jamie XX, Ty Dolla Sign, Lil Wayne, Domo Genesis, 42 Dugg, YoungBoy Never Broke Again, Brent Faiyaz, soprattutto il suo vate, guru e musa Pharrell Williams. Ci sarebbe anche Frank Ocean, ma il suo vecchio amico si limita a uno spoken word. Sarebbe stato troppo forse.

Anche in questo caso il concept si nasconde dietro una nuova maschera del camaleontico Tyler: dall’archetipo dell’Igor alla nuova reincarnazione baudelairiana del rapper californiano affiancato – come se fosse un mix piuttosto che un mixtape – da Tyree Cinque Simmons aka DJ Drama. L’influente producer, promoter e animatore della scena di Atlanta che nel corso degli anni ha collaborato con giganti quali Outkast, T.I., Three 6 Mafia, Mystikal, marchiando a fuoco lavori di Jeezy, Gucci Mane, Lil Wayne, è diventato famoso per la sua serie di mix Gangsta Grillz, super consigliata per chi non ha ben chiaro il legame fraterno tra southern e trap, disorientato dagli eccessi più vacui legati all’esplosione planetaria del filone.

Con questo gran cerimoniere e guida spirituale, e un’ispirazione al suo acme Tyler regala un compendio di sonorità e suggestioni che svariano più che mai dal gangsta-rap alla trap, dall’R&B contemporaneo al nu-jazz in una sequenza di almeno dieci potenziali singoli che fanno di “CALL ME IF YOU GET LOST” un lavoro maturo, coeso nelle sue innumerevoli angolature sonore. Idee, flow, composizioni al servizio di un talento innato che non smette di stupire dieci anni dopo. “LUMBERJACK” , “LEMONHEAD” e “JUGGERNAT” sono delle hit contemporanee in pieno stile Tyler. Il sangue old school scorre bollente nelle vene di “CORSO”, “WILSHIRE”, “WUSYANAME”, “RUNITUP”. Il resto delle tracce sono un’esaltante e catartica immersione nell’universo colorato e multiforme di Tyler.

Difficile dire fin da ora se questo sesto album è il miglior album della sua carriera, anche perché di qui alla fine del decennio con questi ritmi ne potrebbero arrivare altri quattro o cinque, ma si percepisce la portata di uno dei primi veri capolavori hip hop (e oltre) degli Anni Venti.

87/100