[#tbt] Le stralunate filastrocche dei Beach Boys in “Love you”

Then there’s the Milky Way, that’s where the angels play
You’ve seen the lover’s moon, looks good in the month of June
Neptune is god of the sea
Pluto is too far to see (Solar System, Love you)


Nel 1977 il mondo è in subbuglio.
La musica è sconvolta dall’avvento del punk, in Italia siamo nel pieno degli anni di piombo e sono ormai un lontano ricordo sia le spensierate domeniche al mare che le utopie hippies degli anni ’60. È un periodo complicato anche per Brian Wilson e per i suoi Beach Boys. Non è stato facile per la band reinventarsi dopo il fallimento del visionario “Smile” e dopo il tramonto di un’era che li ha condannati per sempre ad essere, nell’immaginario comune, i cantori perpetui delle estati felici, del sole, del mare e delle belle ragazze.
E questo nonostante gli ottimi album sfornati in quel periodo, ma che raramente hanno visto affacciare un loro brano nelle hit parade.

Brian Wilson ha fatto pace con le voci nel suo cervello

Brian è sempre più preso dalla spirale depressiva e la cosa lo induce a ridurre i contributi per la scrittura del materiale. Anche la voce risente dell’abuso di tabacco e altre sostanze, portandolo a perdere, ahimè per sempre, la possibilità di intonare il suo celebre falsetto. Risale a questo periodo la prima terapia col controverso psicologo Eugene Landy, che poi nel bene e nel male, riesce nell’impresa di evitare la caduta dentro un baratro esistenziale. Riconquistata la fiducia in sé, Brian Wilson decide di darsi da fare e scrivere e produrre un album intero, come ai vecchi tempi, tanto che fino all’ultimo si pensa ad una pubblicazione di un disco solista. L’11 Aprile del 1977 “Love you” è nei negozi, corredato da un curiosa grafica di copertina realizzata dall’amico di sempre Dean Torrence (dei Jan & Dean). Sarà sostanzialmente un flop. La critica e i fan sono divisi e spiazzati. La stessa band non tornerà quasi mai più su quei brani per riproporli dal vivo, nonostante Brian Wilson in diverse interviste dichiarerà essere il suo album preferito.

A distanza di anni siamo ancora divisi tra chi considera questo disco un capolavoro e chi una “mondezza indicibile”. Con cosa abbiamo a che fare? Non deve essere difficile immaginare la reazione di un ascoltatore dell’epoca una volta messo il vinile sul giradischi e ascoltato già i secondi iniziali del primo brano “Let’s Go On This Way”: un grasso ed ingombrante basso synth che ruba la scena a tutto il resto, a cui fa da contrappunto una semplice ritmica dell’organo ed una batteria ridotta praticamente a un solo grande rullante. La melodia sembra una strampalata filastrocca uscita da qualche asilo per bambini. Sarà un po’ questo il copione che detterà la linea anche ai restanti pezzi del lato A. Ci sono tematiche buffe ed infantili, come in “Roller Skating Child” o “Johnny Carson” un brano in cui semplicemente si dichiara ammirazione al famoso conduttore di talk show americano. In “Mona” Mike Love lascia finalmente spazio a Wilson che canta il brano nella sua interezza con la sua nuova voce roca e completamente trasformata rispetto a quella di una volta, un contrasto che avvertiamo in modo particolare grazie anche all’inclusione in scaletta di un vecchio pezzo, “Good Time”, tratto dalle sessions di “Sunflower” del 1973: il distacco è evidente ma non l’atmosfera “fanciullesca” che ben si addice invece al resto dei brani. Un po’ come fecero in “Today” (uscito nel ’65) il lato B è dedicato a brani più intimisti e soft, in cui, in questo caso, non si sa se ridere o piangere: Brian sembra quasi regredito all’età dell’infanzia facendo emergere tutta la tenerezza e fragilità insita in questa condizione. Un cantato incerto elenca i pianeti in “Solar System”, un’altra insensata filastrocca. In “I Bet He’s Nice” dialoga con i fratelli Dennis e Carl di ragazze e di frivole cotte giovanili, mentre i sintetizzatori intervengono con delle giocose frasette. Si continua di questo passo fino alla conclusiva “Love Is A Woman”, brano eseguito anche dal vivo in una terribile performance del solo Brian al piano ospite al Saturday Night Live Show del 1976.


Nel 1977 “Love You” è un album  fuori dalla sulla epoca: non ha nulla a che fare con i Beach Boys che tutti conoscevano fino ad allora, non ha nulla da spartire neanche con la disco music o con il punk anche se, alla lontana, possiamo sostenere che da entrambi ha preso qualcosa (i sintetizzatori dalla prima e l’asciuttezza e il minimalismo della produzione dal secondo). Quello che più gli si avvicina arriverà almeno una decina di anni dopo col fiorire di un sottobosco di band indie “low-fi” o del cantaurato intenso e bislacco di Daniel Johnston. Sarà solo con il passare del tempo che verrà rivalutato e si accumuleranno gli attestati di stima, da Patti Smith a Peter Buck dei REM fino a Thurston Moore dei Sonic Youth.

Abbiamo in definitiva a che fare con un’opera unica che esprime anche l’incanto e la purezza del ricordo dei primi sussulti d’amore, come nell’attesa in “Airplane” dell’arrivo della persona amata. E se
per la ragazza che corre sui pattini in “Roller Skating Child” la strofa dice “You know my heart starts smiling when she sings”, noi nell’ascoltare il disco rivivremo le stesse sensazioni.

(Eulalia Cambria)