The Long Ryders + Dan Stuart & Don Antonio, Bronson, Ravenna, 21 Aprile 2019


La Pasqua 2019 al Bronson è da tutto esaurito, grazie ai numerosi fan di ogni età accorsi per le leggende del Paisley Underground: The Long Ryders – freschi di pubblicazione di un nuovo album in studio dopo trentadue anni, “Psychedelic Country Soul” – e Dan Stuart, con il supporto di una backing band guidata dal chitarrista Antonio Gramentieri (Don Antonio, Sacri Cuori).

La cronaca dell’evento, come gli amici che incontriamo non esitano a definirlo, inizia con una buona mezzora di fila all’ingresso che non mi permette di vedere l’esibizione di Stuart per intero; nel pugno di brani rimasti c’è uno stomp-blues facile ma contagioso, “Tucson” estratta da “The Unfortunate Demise of Marlowe Billings” del 2018 e “16 Ways”, uno tra i tanti classici dei Green On Red. Il pubblico si scioglie cantando a squarciagola e ci rammarichiamo di non essere arrivati prima, il piccolo ensemble va che è una meraviglia nel contrasto tra i ricami di sax e tastiere in stile New Orleans e la languida Telecaster di Gramentieri. Dan Stuart resta un grande interprete, niente di meno di un Mick Jagger o Neil Young, ma avremo modo di rivederlo più tardi nel corso della serata.

Ed eccoli, i quattro cavalieri di Los Angeles, Sid Griffin, Stephen McCarthy, Tom Stevens e Greg Sowders, lanciarsi in una “Gunslinger Man” pregna di new-wave seppur imperfetta nel bilanciamento delle chitarre. Si riordinano con il cow-punk melodico “I Don’t Care What’s Right, I Don’t Care What’s Wrong”, perla dall’Ep d’esordio “10-5-60” datato 1983 in cui McCarthy dà risalto alla sua vocalità così affine a quella di Gram Parsons; è poi il bassista Tom Stevens a condurre “A Stitch In Time” (da “Two Fisted Tales”), forse la canzone più bella da lui scritta per il gruppo.
E quando il leader Sid Griffin imbocca l’armonica ci sembra di trovarci in mezzo ad un bivacco nella foresta del Kentucky, suo luogo d’origine: notevole l’empatia che crea con il pubblico in un’atmosfera di grande divertimento, la scaletta si riduce di un brano ma poco importa quando l’intera band si intrattiene a firmare vinili, magliette e altri cimeli senza risparmio di energie.

Segue il blocco di pezzi da “Psychedelic Country Soul”, introducendolo Griffin rivendica orgogliosamente la numero uno sia nella Official UK Americana Chart che nella classifica di vendita di Amazon. Si distinguono “What The Eagle Sees” (di Griffin) e “Greenville” a firma McCarthy per modernità della proposta ma non scontenta nemmeno la country-ballad “Gonna Make It Real”, mentre “Bells of August” di Stevens omaggia “Wild Horses” e fatalmente soffre di altri problemi con l’amplificazione. La parte del leone la fanno però gli inni degli anni ottanta, dal rock psichedelico di “State Of Our Union” alla cover di “I Want You Bad”, passando per “Bear In The Woods” uscita nel 2017 e la travolgente “I Had A Dream” – sulla scia dei primi Who, da “Native Sons”.

Si corre veloci verso la fine del set: in “Final Wild Son” Griffin mette i panni del Bob Dylan di “Subterranean Homesick Blues” e “Lights Of Downtown” brilla dei riff jangle-pop costruiti da Rickenbacker e Fender; il batterista Greg Sowders pesta come un indemoniato in “Southside Of The Story” e torniamo magicamente indietro alla scena garage punk dei concittadini Gun Club e X. Per i bis arriva l’amico Dan Stuart e la scelta cade su un suo brano scritto a quattro mani con Steve Wynn per il progetto Danny & Dusty, “Baby, We All Gotta Go Down”; visibilio generale pure per “Looking For Lewis And Clark” di Sid Griffin con il controcanto del pubblico, l’anarchia di una tromba e le chitarre ruvide a guidare l’ultima danza rock’n’roll del tour italiano dei Long Ryders.

La scaletta dei Long Ryders al Bronson di Ravenna:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(Matteo Maioli)