Nai Palm, Biko Club, Milano, 7 settembre 2016

nai palm
A sentire Nai Palm al Biko Club di Milano c’era un pubblico molto variegato. Si sapeva per certo sarebbe stavo un set particolare, per nulla modaiolo e altrettanto differente da un live con la band da lei fondata, gli australiani Hiatus Kayote e di cui è per certo la leader carismatica. In effetti anche durante tutto il concerto è il suo fascino, oltre che la sua bravura, ad incantare la folla.

Non si tratta di bellezza – lo svilente chiacchiericcio pre-concerto di alcuni dei presenti, che ne commentavano con disappunto l’aspetto formoso, lasciava pochi dubbi a riguardo – ma piuttosto di una vita vissuta intensamente che trasudava da ogni centimetro disegnato del suo corpo, dai suoi capelli, dai suoi gioielli e da quel pattern vocale in continuo cambiamento che marchia la sua performance.
Qualche tempo fa un amico mi suggerì di vedere un video di un’intervista alla Palm per il progetto “StyleLikeYou”, nel quale donne appartenenti al mondo delle arti di ogni genere e non, raccontavano alla telecamera alcuni aspetti della loro vita che emergevano dal loro look e come lo stile personale fosse influenzato dal loro modo di essere. Nell’intervista la cantante australiana racconta di eventi molto drammatici che hanno caratterizzato la sua infanzia e di come il contatto con la natura fosse riuscita a curarla, decidendo di trasformare il suo corpo in un monumento alla bellezza, vista esclusivamente in ottica di immersione nell’ambiente che ci circonda. Ne sono rimasta affascinata.

Incredibilmente curiosa di vederla dal vivo mi sono fiondata sotto al palco del Biko ed è lì che ho potuto confermare l’impressione che mi ero fatta di lei, come di un’ artista autentica, dagli occhi empatici e la commozione dietro l’angolo.
Dicevamo scaletta mista, brani da entrambi gli album di HK, nuovi pezzi composti in solitaria, cover curiose. Nai e la sua chitarra aprono con gli arpeggi intimisti di “Mobius Streaks”, seguita da “Breathing Under Water”, forse il pezzo più noto di “Choose your Weapon” e dichiarato omaggio a Stevie Wonder. Tra un salto e l’altro fa capolino una rivisitazione di “There There” dei Radiohead. Poi arriva “The World Softly Skulls”, sommario delle influenze neosoul della band. Nel brano si mescolano le due anime di Nai, quella sperimentale e vocalmente giocosa che l’ha fatta notare a Erika Badhu, dalla quale trae ispirazione e il rigore jazzistico perfetto che l’avvicina alle grandi del passato.

Tra un brano e l’altro chiacchiera amabilmente con il pubblico e racconta del suo imminente ritorno in Italia per farsi tatuare un cobra bianco sul collo da un artista nostrano. L’atmosfera diventa danzereccia con un’inaspettata cover del classico “Ain’t Nobody (Loves Me Better)” di Chaka Khan. La madre di Nai, persa alla giovane età di 11 anni, le faceva ascoltare molto soul e la cantante ci tiene a ricordare chi ha un posto speciale nel suo cuore, da Al Green al già citato Stevie Wonder e ultimo ma non per importanza TuPac. Successivamente passa a “Molasses”, il brano future soul per eccellenza, genere che tanto viene tirato in ballo quando si parla di questa band (apprezzata anche da Animal Collective, Quest Love e dalla stessa Erikah Badhu). Con un groove potentissimo e echi r’n’b anni ’90 Molasses gioca con le parole e l’immaginario surreale che permea tutti testi della Palm.

In chiusura decide di deliziarci con un’improvvisata “Have You Ever Been To Electric Ladyland” e l’attesissima “Nakamarra”, ode al paesaggio desertico australiano e alla cultura tribale di quei luoghi.
Rientra sul palco per congedarsi dal pubblico con una cover di “Ma Cherie Amour” dell’amato Stevie Wonder e lascia il pubblico sorridente e soddisfatto di questo tête-à-tête con la Nai persona, oltre che artista.

In una passata review del New York times, Jon Pareles scrisse che “Nai Palm non canta semplicemente canzoni su trasmutazione e metamorfosi, in un paesaggio che comprende al suo interno sia la magia che il pericolo, le canzoni degli Hiatus Kayote comunicherebbero le stesse emozioni anche senza una parola” e una volta esperita la possibilità di essere a contatto con lei e il suo modo di vivere la musica diventa semplice condividere questo pensiero, come se natura, cultura, composizione musicale, parole, influenze e immaginari si fondessero esattamente nella sua persona e nella squisita delicatezza del suo modo di cantare. Da rivedere certamente con band al seguito.

(Giulia Romagnosi)