Unknown Mortal Orchestra, Mattatoio, Carpi (MO), 22 novembre 2013

umocarpi

Mi dispiace: più vado avanti e più divento enfatico. Però non riesco a togliermi dalla testa che i cinque minuti di assolo di batteria di ieri sera di Riley Geare sono uno spartiacque. O, meglio, un’ulteriore dimostrazione che basta, sono finiti i tempi dei poser indie-rock, di quelli che pensavano che si poteva suonare leggerini con un bel look, con il baffo, con il ciuffo o con la barbetta ed era tutto ok, anzi che si poteva non sapere suonare così era più figo. Stop. Ieri sera a Carpi gli Unknown Mortal Orchestra hanno sudato, hanno dilatato i pezzi come solo chi visceralmente maneggia la propria musica sa fare, hanno creato inserti ipnotici strumentali che mutavano in assoli, hanno accelerato, hanno rallentato, hanno innescato a volumi sempre più elevati per poi ritornare soffusi, insomma, hanno spaccato.

A mio parere si tratta di due partiti politici, di destra/sinistra, di due modi di intendere (ed approcciare) la materia musicale, o forse è questione solo di talento. Fatto sta che gli U.M.O. sono perfetti esponenti di un rock ricercato che si contamina con Syd Barrett, Jimi Hendrix, Stevie Wonder e i Tame Impala, un fuzz-garage rock dalle tinte soul e psycho. Sembrerà paradossale, ma è così, e dal vivo cresce questa sensazione di miscuglio. Una band così talentuosa non può che essere un po’ “imbrigliata” in studio, per cui si sfoga dal vivo. E se lo può permettere. Ruban Nielson, il cantante-chitarrista-compositore, suona in modo totalmente istintivo: tiene la tracolla sulla spalla destra (!) e pizzica contemporaneamente le corde basse e quelle alte, facendo sembrare di fatto che ci siano due chitarristi, gli occhi chiusi, la voce che gli esce distorta ed ovattata come nei dischi ma con una sfumatura soul che la rende parecchio personale.

Nell’ora e venti di concerto c’è spazio per una buona scelta dal repertorio dei loro due dischi con apoteosi per l’encore: una “Swim and Sleep (Like a Shark)” in versione acustica con il solo Nielson e una coinvolgente “So Good at Being In Trouble”, penultima song in scaletta. Nel mezzo si fanno notare un’entusiasmante “No Need For A Leader”, “Faded In The Morning” e “Ffunny Ffrends” mentre risulta un po’ zoppicante la canzone che me li fece scoprire, nel lontano 2010, ovvero “Thought Ballune”.

In ogni caso io mi sono esaltato. E non so se gli astanti hanno capito la differenza tra gli U.M.O. e i precedenti Brothers In Law, anch’essi molto ben accolti, invece esponenti massimi – a mio parere – dei poser indie-rock, con il baffo, il batterista che suona in piedi (!), i suonettini uguali-uguali a miliardi di band che uscivano nella scorsa decade, le canzoni con melodie senza costrutto però con gli accordini giusti che fanno un po’ di presa che–veniamo-da-pesaro-e-dunque-siamo-fighi. Vabbé in Italia arriviamo sempre cinque o dieci anni dopo, perché crucciarci?

(Paolo Bardelli)

23 novembre 2013