THE KAAMS, “Uwaga!” (Area Pirata / Boss Hogg Records, 2012)

Verrebbe da gridare che il rock’n’roll è vivo e vegeto ma ho una paura fottuta di quella frangia di retrogradi che dietro al verbo di Simon Reynolds si celano sbavando sui loro dischi degli Who. Ho smesso però di avere paura dei luoghi comuni, quindi spazzerò via le convinzioni passatiste della gente che non si gode il presente e affermerò che “Uwaga!” è un disco con i contro coglioni.

Lo è ora, in questo triste 2012 offuscato dalla tendenza a sminuire l’influenza del passato che diventa inevitabilmente presente. Ai The Kaams fare rock’n’roll viene esattamente in questo modo; garage sporcato dai fiati che suona dannatamente eccitante, sessualmente libero e senza pretese alcune. Nessun cristiano romperebbe i coglioni al suo parroco perché non attualizza la parola di Cristo, la parola di Cristo vaga da secoli attualizzandosi da sola dicendo la stessa identica cosa, così neppure noi, devoti a queste sonorità che da Elvis in poi hanno sempre reso la vita meno monotona, non vogliamo immaginare che QUESTA musica diventi qualcosa d’altro.

Per tutto questo esistono i pseudo/intellettuali, i pseudo/alternativi, i pseudo/psicologi che del rock non hanno compreso che la sua libertà è solo un momento (magari di tre minuti, magari sotto effetto alcolico, magari con la lingua infilata in una grande bocca) da vivere senza delimitarne gli spazi. Il resto è solo vita che scorre, con affitti e bollette che scadono (queste sono le uniche cose che dovrebbero cambiare), donne che ci bruciano il culo o ci incendiano il cuore e amici che vivranno con noi questi minuti con la stessa intensità con la quale i The Kaams (italiani, per la precisione, atri problemi? Non eravate voi che la menavate con quella storia che a noi tocca sempre la merda? Sveglia cazzo, la provincia ha gli occhi alzati e magari anche da noi divamperà un focolaio come quello che ha lanciato e bruciato il funk nero) attualizzano le loro influenze. Che vanno dai Kinks barricadieri agli Stones invischiati in blues primordiali fino ad assomigliare a se stessi quando si lanciano in un saliscendi di soul Brown-Style che dagli Small Faces ai Pretty Things imbizzarriti capitolano alla corte dei nostri Mojomatics. Qualora questo connubio di garage beat fosse per voi ancora motivo di diatriba, vi lascerò a fondere il cervello sulle vostre retro/mani(ach)e frustrazioni. Io me la spasserò di certo, convinto che se arriverò alla maggiore età, questo sarà anche una parte del mio passato.

“I Want More”, per stare alle loro parole. Nessuna citazione. Nessuna via di fuga. Nessuna scusa. Solo costretti ad ascoltare e a battere quel cazzo di piedino.

75/100

(Nicola Guerra)

10 settembre 2012

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