“Lonerism”, il sogno fluttuante dei Tame Impala

Il capolavoro dei Tame Impala usciva il 5 ottobre 2012, dieci anni fa: cosa è rimasto di uno dei grandi album degli Anni Dieci? Ne ripercorrono le sensazioni il Bardelli e il Bachini.

C’è stato un momento, all’inizio degli Anni Dieci, in cui sembrava in cui in tanti confluissero verso una psichedelia allegra e dissoluta, come un ultimo vagito di coscienza mentale prima che il mondo di Instagram e del pop prendesse definitivamente il sopravvento, e “Lonerism” è stato il massimo esponente di quella sensazione euforica (assieme a “Halcyon Digest” dei Deerhunter, direi). Organetti cosmici, fuzz ridondanti, melodie beachbeatlesiane, l’urgenza di uscire come quella di un amore che deve bruciare in fretta (al tempo Kevin Parker frequentava Melody Prochet, l’album è stato registrato in giro per il mondo ma molto anche a Parigi e la stessa copertina raffigura i Giardini di Luxembourg), “Lonerism” – alla facciazza del tema della solitudine che dovrebbe caratterizzarlo – è invece un’esplosione fantastica di iperattività e gioia, di flanger e phaser che fanno fluttuare il suono con l’ascoltatore sopra come su un surf, di eccitazione drogata che si sfuma in sogni apocalittici. Ci sono canzoni enormi e diversi momenti grandiosi in questo album, ma a distanza di tempo quella parte mediana di “Keep On Lying” in cui succede di tutto, organetti che rincorrono chitarre sature, risate e discorsetti inquietanti, note lancinanti, una perenne sensazione di essere andati in acido, è la rappresentazione stessa della nostra mente e dei nostri pensieri quando sono tra l’allucinato e il confabulatorio.

(Paolo Bardelli)

Il modo in cui intendo la discografia dei Tame Impala è un po’ controcorrente. Intendo dire che tra i quattro dischi pubblicati faccio fatica a trovarne uno che abbia meno senso e valore degli altri. Nel dopo  “Lonerism” c’è stato l’assestamento di un suono in chiave pop che non riesco a leggere con un’accezione involutiva. Però qui oggi il festeggiato è “Lonerism” e allora veniamo ad alcuni dei suoi (tanti) meriti. L’album segna un passaggio importante perché rappresenta la connessione tra un approccio psichedelico, per così dire più “canonico” ed un suono senz’altro contemporaneo che si connette con l’indie rock degli anni ’10. È la foto dei Tame Impala un attimo prima di assumere un ruolo nel mainstream (pensiamo a tutte le successive collaborazioni di Kevin Parker). E soprattutto precede il passaggio da band pienamente identificabile col suo leader a one man band in senso proprio assoluto (dal successivo “Currents”). Le sonorità e le strutture delle canzoni di “Lonerism” sono sostanzialmente frutto della testa di Kevin Parker ma prendono forma attraverso l’identificazione (fosse anche solo fittizia) con un gruppo. Nel linguaggio pop delle dodici tracce e nel mare analogico di sintetizzatori emerge un istinto ancora chitarristico, con un suono corposo e il rimando inevitabile alla dimensione live come momento d’espressione apicale di tutta la faccenda. Dopo, per volere del sempre ispiratissimo Kevin Parker, non sarà più così. La strada, bellissima, sarà comunque un’altra. Ce la fate oggi a dire “i Tame Impala”?

(Marco Bachini)