M.I.T. – Auditorium Parco Della Musica (Roma) (11 aprile 2010)

Stiamo ancora osservando la forma imperfetta dei nostri nuovissimi baffetti da sparviero (in onore dell’eroe Hayden Thorpe, cui estorceremo anche un autografo) nell’immagine riflessa di una vetrina opaca, quando dalla radio ci arriva la notizia gracchiante della a dir poco stoica rimonta (da 2 a 0 a 2 a 3, signori!) della squadra tremebonda che ci è capitata in sorte e silenziosamente capiamo che è giunto anche per noi l’atteso e inevitabile momento di entrare nel grande macchinario di spazi, linee e suoni tridimensionali noto anche e soprattutto come Auditorium Parco Della Musica, per quello che si presenta come uno degli appuntamenti musicali più attesi di questa declinante stagione concertistica romana, il M.I.T.

A cavallo tra sperimentazione elettronica e mappatura provvisoria delle linee di crisi e sviluppo potenziale dell’odierno rock alternativo, con un programma multistratificato e solcato da una fittissima ragnatela di inesauribili punti di fuga, il nostro festival inizia nello spazio riservato alla scuderia Warp, con il set dei Plaid che ci rovescia addosso uno tsunami liquescente di beat granulosi e psichedelia eraclitea in divenire biotecnologico costante, simile alle sagome colorate e senza peso dei palloncini che ci piovono sulla testa, risospinti dal magnetismo dei corpi che vibrano rapiti attorno a noi.

Ma come ben sa chi non è nuovo alle crociate festivaliere, il problema dell’avventuriero-fruitore dell’evento è sempre e soltanto uno: il tempo. Ostaggi discreti del ticchettio sinistro dei nostri orologi stretti ai polsi come manette metafisiche, con mappa e scaletta stropicciata infilata nella tasche, ci catapultiamo nella sala riservata all’esibizione dei Wild Beasts, per la prima volta in Italia. Tra gli ultimissimi e residuamente credibili superstiti di una via interpretativa all’indie-rock rigorosamente “all’inglese”, la band di Kendal, barocca ed elegante, in bilico tra Associates e Magazine, ripropone le splendide canzoni del suo pregiatissimo secondo album, targato infallibilmente Domino Records. Il gruppo punta tutto su un approccio agile e dinamico, disegnando maree elettriche che si impennano e poi ritirano, scoprendo il segreto di melodie antiche ed inestimabili come bronzi sepolti nel tempo, mentre vortici e sbuffi di chitarre scroscianti schiumano e mulinano nell’aria, sempre frustati a dovere da un drumming geometrico e concettuale. Ma il vero e proprio spettacolo nello spettacolo è l’alternanza delle due voci di Hayden Thorpe e Tom Fleming, che si incrociano, si rincorrono, rimbalzano in uno strenuo rimpiattino l’una sull’altra, come due rime spurie, opposte e convergenti come le due lame di un’ascia bipenne o un pugnale scagliato oltre l’ultima distanza. Sporca e sabbiosa quella di Tom Fleming, biforcuta e melò quella del femminino baffuto Hayden Thorpe, la medaglia di questo yin e yang vocale viene fatta roteare in canzoni come “The Fun Powder Plot”, “Hooting & Howling” o “All the King’s Men”, fino all’apoteosi di “Two Dancers”, che come un risucchio vertiginoso ci inghiotte dentro una conchiglia di musiche scolpite dal mare e lì ci lascia felicemente imprigionati, fino alla fine del concerto.

Abbiamo giusto qualche istante concitato per rifiatare che già è tempo di andare a porgere i nostri più intimi omaggi a Anja Franziska Plaschg, aka Soap & Skin. Che dire della chiacchieratissima austriaca che già non sia stato detto più e più volte? Bè, che come minimo è lei, in ultima analisi, l’unico (e vero?) Teatro Degli Orrori attualmente in circolazione. Esile e flessuosa, fasciata in una tunica da vestale inconsolabile, per chi temeva la ragazza nascosta dietro la carcassa nera del suo pianoforte spiaggiato col ventre aperto sul palco, la risposta non tarda ad affacciarsi in tutto il suo fascino oscuramente ossessivo: urla, luci che vanno e vengono, un ensemble di corde e fiati fatto di burattini annodati alle sue dita febbrili che graffiano i tasti bianchi e neri delle canzoni per poi descrivere nell’aria i geroglifici di un alfabeto di gesti e movimenti di cui soltanto lei conosce l’ordine segreto, andando avanti e indietro, interrompendo gli applausi, accucciandosi in un cantuccio in silenzio o cadendo a terra come in trance. Le canzoni del suo formidabile esordio sgusciano via una fuori dall’altra, come un’unica inesorabile bava di disperazione e malattia, sproloquiante vedovanza e gelo, schiacciate tra gli ingranaggi di orologerie elettroniche che scandiscono il loro “tic-tac” e un magma sinfonico che rimbalza tra le teste pietrificate degli astanti, riecheggiando ora Nico, ora Diamanda Galas, ora My Brightest Diamond. Peccato soltanto per qualche simpatico rompiscatole finto-patentato che pensa bene di schiamazzare per buon parte dello show un criptico “Più stile!”, manco fossimo in un’arena ad osservare compiaciuti un impotente J-Ax che viene divorato dalle fiere. Il manipolo non demorde e arriva addirittura ad accendersi con ammirevole nonchalance uno spino (!?), salvo poi diventare più scivoloso e inoffensivo di una saponetta surriscaldata non appena sopraggiunge la corpulenta sorveglianza, che lo mette in fuga (avremo modo di intercettarlo più volte nel proseguo della manifestazione).

Finalmente abbiamo un fazzoletto di minuti contati per placare le ire dei nostri stomaci scavati dalla fame, minuti che impieghiamo nel recupero dei gustosi panini con frittata approntati con amorevole cura dalle nostre generose e maternissime amiche. Peccato che i panini giacciano nascosti nel portabagagli sigillato di una Smart che non riusciamo a (ri)trovare, per altro fustigati da una pioggia crudele e battente. Mentre ci aggiriamo smarriti azionando l’antifurto silenzioso di una macchina che non ci risponde, impariamo a nostre salatissime spese quante Smart possano prolificare e riprodursi a vista d’occhio come funghi lungo i marciapiedi smangiati di una città come Roma, arrivando addirittura ad introdurci per puro errore in un esemplare già aperto, sotto lo sguardo sospettoso di stewart che ci inducono cordialmente ad una calibratissima ritirata a testa bassa e mani vuote.

Rimbalzando come trottolini fosforescenti tra un ferocissimo Tim Exile, i cui ripidissimi volumi di suono letteralmente ci scaraventano fuori dalla sala a calci nello stomaco e fuoco nelle orecchie, e gli astratti pittogrammi cosmografici di Murcof (che ripropone le celebrate “Versailles Sessions”), ci dividiamo dalle nostre solerti colleghe che si fiondano a sentire l’ormai collaudatissimo tributo a Nico orchestrato dalle esperte mani di John Cale, attorniato per l’occasione da un nutrito corteggio di ospiti illustri (da Mark Lanegan a Joan As Police Woman, passando per Cocoroise, Mercury Rev e Lisa Gerrard, solo per rimanere ai più eclatanti), che stando alle testimonianze delle nostre emissarie si rivela bello ma un po’ troppo lungo e diluito. A noi invece tocca in sorte l’esibizione dei Very Best, atipica formazione anglo-malawese e caso mediatico della stagione musicale trascorsa, facente capo al tarantolato vocalist Esau Mwamwaya che, scortato da un dj, un secondo aizzatore vocale e da due peccaminose lolite dal ventre nudo e muscoloso, snocciola le assai esigue ragioni di uno scialbo afro-dance-pop tutto coriandoli colorati, palme di plastica e poco convinti “oh-oh” estorti non senza difficoltà alle prime file (che diventano ben presto anche le ultime). Bella la prima canzone, carina la seconda, non male neanche la terza, ma già alla quarta l’occhio viene risucchiato come l’ago di una bussola dal magnete allettante della porta d’uscita. Verso la quale puntualmente ci dirigiamo, per ritornare solo qualche minuto più tardi e ritrovare i quindici superstiti del pubblico ancora in piedi tutti sul palco a ballare (!?), circondati dal rimbombo desolante di una sala rimasta inesorabilmente vuota.

Ci congediamo dal festival sulle note pensose e cullanti del techno-jazz concettuale, tutto pianoforte e drummacchine, di Bugge Wesseltoft e Henrik Schwartz, alimentato con progressioni improvvisative e avvitamenti fantasmagorici di pensieri a spirale che ci danno il tempo e lo spazio mentale per raccogliere le idee, un po’ confuse, su un festival vario e convincente, pieno di spunti ed idee non scontate che ci auguriamo potrà negli anni duri che ci aspettano trovare una sua più stabile e articolata fisionomia. Per il momento bisognava rispondere presente e noi lo abbiamo fatto.

Un ringraziamento ad Alessandra, Federico e Francesca.