FM4 Frequency Festival 2009 (St. Pölten, Austria) (21 agosto 2009)

21 AGOSTO 

foto di lennox_mcdough (flickr.com)

Il giorno dei Radiohead comincia col migliore degli auspici quando dal campeggio-VIP, un parcheggio meno affollato del campeggio normale posizionato dietro al palco principale, ci si accorge intorno alle 12 che i cinque stanno iniziando il soundcheck. Alle ore 12 apre il festival per la stampa per cui non resta che catapultarsi dentro per assistere incredibilmente alle lunghe prove generali della band. Situazione surreale con una ventina di accreditati attoniti di varia natura agganciati alla transenna fingendosi disinteressati e un mini-set di nove canzoni per pochi intimi sotto un sole impietoso.Si vorrebbe immortalare il tutto, ma la crew è inflessibile così Walt, fotografo di Spin, finge di parlare al telefono mentre cattura tutto il possibile con il suo i-phone e il sottoscritto riprende uno spezzone della nuova “These Are My Twisted Words” da dietro a un albero, lontano dalla transenna. Davanti a cose del genere si rischia di perdere serietà e dignità, come negarlo. Quasi si finisce tutti a ballare su “15 Step” e “Idioteque” in questa insolita cornice e per commuoversi prima del tempo sull’inaspettato ripescaggio di “(nice dream)”. Fare una recensione su un soundcheck sarebbe roba che neanche la beatlemania. In sintesi, Thom è più dispotico di quanto sembri, nonostante a petto nudo perda quell’alone di credibilità, gli altri muti non si fanno troppe storie come lui che perde cinque minuti reclamando al fonico il giusto suono per il piano di “Videotape”.

Tornando al festival, oggi tutto sembrerebbe più inutile, persino Marc Almond dei Soft Cell e la leggendaria Grace Jones che si sovrappongono maledettamente agli oxfordiani. Eppure qualcosa di buono c’è, a partire dalla rovente oretta, in tutti i sensi, di The (International) Noise Conspiracy, il gruppo svedese più a sinistra dei socialisti più a sinistra d’Europa. Rock’n’roll, invettive, energia pura, pugni chiusi finali, contenti di suonare davanti a qualcuno nonostante l’orario, dopo l’episodio di un festival canadese nel quale sostengono di essere stati messi in cartellone mezzora prima dell’ingresso. Dennis Lyxzén fa il Robert Plant innamorato di se stesso che non disdegna un brindisi ikea (Skål!) conciato neanche lui troppo bene in sala stampa. E, per restare in tema, dopo prende la scena l’immortale Jello Biafra dei Dead Kennedys con la sua The Guantanamo School Of Medicine. Fa quasi tenerezza vederlo così imbolsito a farneticare contro il capitalismo, il dominio delle macchine sulle coscienze e l’imperialismo della sua America. Ma, come non sorridere, davanti a violentissime riproposizioni della cult-band californiana negli inni indiscussi dell’hard-core punk dei primi anni ’80 quali “California Uber Alles”, “Holiday In Cambodia” o “Nazi Punks Fuck Off”. Si passa poi nel tetro Weekender-UK stage per i Baddies e il loro improbabile ponte tra l’isteria dei Talking Heads e i muri di chitarre dei Queens Of The Stone Age che sfocia in un esplosivo post-punk più coeso di These New Puritans e derivati, intenso e spigoloso, da garantire al quartetto dell’Essex la palma di sorpresa del festival. Disco d’esordio in uscita a settembre, “Do The Job”, si sentirà parlare di loro.

E quando il pomeriggio rischierebbe di diventare noioso per l’evento della serata arriva lui, sir Jarvis Cocker del quale si sa benissimo che non riproporrà brani dei Pulp, ma saprà intrattenere come solo lui tra prese per il culo alla platea un po’ addormentata, le scuse ufficiali per aver indossato occhiali scuri per via di un rossore agli occhi (facilmente imputabile a determinati postumi) e la celebrazione del 187esimo anniversario della scoperta di una fantomatica Jarvis Island “it must be beautiful”. E comunque da “Angela” all’eponima, “Further Complications” graffia e convince molto più del controverso precedente.

Dopo toccherebbe ai Farin Urlaub Racing Team, orribile fenomeno nazional-popolare tedesco a metà tra ska-punk e autentico trash di quelli da filmato youtube trafugato dalla Germania Est degli anni ’80. Eppure orde di quindicenni in delirio li accolgono come degli eroi. Pare che addirittura abbiano un pass speciale per fotografare da sotto al palco come solo Radiohead e Prodigy, si lamenta il fotografo di una webzine croata. Iniziamo a chiacchierare definenoli “useless”. Ma di Farin Urlaub e gli altri membri del collettivo, si potrebbe sintetizzare con un più semplice “brutti”.
La situazione prova a risollevarsi coi Bloc Party. Non manca il ritmo nella loro lunga e acclamata esibizione, ma il problema fondamentale è che i brani degli ultimi due lp reggerebbero a fatica il confronto con i ripescaggi da “Silent Alarm” se questi non suonassero un po’ caotici negli equilibri sonori, soprattutto a livello di chitarre. Sarà che Lissack è troppo impegnato a fare il Jonny Greenwood col suo ciuffo e le sue pose. Così a tratti regna la confusione nonostante Kele Okereke mantenga il palco bene e la base ritmica Moakes-Tong sia solida. Le novità dal vivo guadagnano qualcosa anche per la prevalenza dei groove sulle schitarrate, su tutte il recente singolo extra-album, “One More Chance” e “Hunting For Witches”. “This Modern Love” dà la sferzata decisiva portandoli all’ottimo finale in ripresa con “Like Eating Glass”, “Flux” e l’immancabile “Helicopter”.

Cambio palco. E che palco. Confermata la scenografia futuribile di “In Rainbows” con le luci tubolari che piovono giù come rigide stalattite digitali, i Radiohead dopo quasi vent’anni di carriera per la prima volta in Austria. Nelle prime file c’è abbastanza spazio grazie all’intelligente scelta del primo settore a capienza limitata, per evitare le abituali incursioni dalle retrovie degli ultimi arrivati. Almeno in Italia, qui forse non ce ne sarebbe bisogno. A vedere l’aria di normalità facilmente confondibile per disinteresse, in base ai nostri standard. Non ci si accalca per raggiungere la transenna, si attende seduti la fine dell’allestimento del palco con educata impazienza. Senza voler fare discorsi ideologici, ma vedere ragazzi venuti dai Balcani o addirittura da Bulgaria e Polonia attendere trepidanti l’evento è una piccola testimonianza di come il tanto vituperato occidente abbia dei lati positivi a livello culturale. Il fatto che a vent’anni dalla fine dello scontro bipolare i ragazzi a Est della cortina siano potuti venire a conoscenza di questa band magnifica e possano battere le mani col sorriso sulle labbra dall’inquieta “15 Step” in poi, è una piccola vittoria per l’umanità. Gli austriaci, ai quali è offerto il regalo della prima volta live, la prendono molto più freddamente. Probabilmente è nella loro natura. Loro ne prendono atto e con misurati danke e introduzioni, si limitano a svolgere il compitino, un signor compitino, con Thom praticamente perfetto e gli altri impeccabili come poche volte di recente. Sarà la freschezza da prima data europea.
Stupisce, poi, come i brani di “In Rainbows”, eseguiti tutti ad eccezione di “Faust Arp” e “House Of Cards”, siano generalmente accolti con più calore rispetto a tutti gli altri. Segno dei tempi. “In Rainbows” non è, “Pablo Honey” a parte, obiettivamente al livello di nessuno dei suoi predecessori, eppure dal vivo sembra in continuo assestamento verso un suono sempre più compatto ed efficace. Con “Videotape” sempre più prossima al loro personale Olimpo. Poco da dire. Servirebbero dei neologismi per descrivere un live dei Radiohead e la quiete del pubblico trasforma la cornice in un silenzioso teatro a cielo aperto che rende l’atmosfera più suggestiva. L’uno-due “Kid A”/”The National Anthem” è il momento che più impressiona e stordisce, nella riproposizione dello stesso ordine di esecuzione di “Kid A”. Pretendere “How To Disappear Completely” sarebbe anche troppo.

A consolare arriva un altro uno-due letale dal troppo sottovalutato “Hail To The Thief”, con la claustrofobica “The Gloaming” e un altro brano testimone dell’inimitabile ricerca sonora della band, quale la straripante “Myxomatosis”. In un annebbiante tripudio di luci verdastre da ko che si ripropongono ancora nella sinuosa “Climbing Up The Walls” che scivola straziata nei desolati panorami di “Street Spirit (Fade Out)”.

Sul finale, cambio di programma, annunciato da Thom tra le risate di Ed, Colin e Phil (Jonny è come al solito nella sua dimensione parallela), con “Karma Police” eseguita al posto di “Bangers’n’Mash” come regalo a una platea tramortita per motivi vari. E finalmente qualcosa si muove, qualcuno urla seppur con educazione. Qualcosa si muove nella conclusiva “Idioteque”, unico brano ormai inamovibile nelle loro scalette. Qualcuno smobilita, credendo sia finita sul serio. Si perde uno dei migliori bis degli ultimi tempi. Con la prima assoluta di “These Are My Twisted Words” che Thom presenta ironicamente come la canzone dei pirati, essendo stata trafugata tre giorni prima dell’uscita a sorpresa del 17 agosto. Non avremo più LP per un po’, e in fondo va bene così adeguandosi alle esigenze di velocità della generazione-web. Soprattutto se la qualità di singoli e mini-album sarà questa. Il brano dopo tre giorni lo conoscono già tutti e qualcuno ha già comprato la t-shirt dal merchandising ufficiale. Il futuro è questo qua, sebbene la canzone sia un nostalgico incontro tra kraut e dark-wave. Con la gradevole incompiutezza e frammentazione nella struttura tipica degli ultimi Radiohead e degli sprazzi migliori di “In Rainbows”.

Poi due esecuzioni da pelle d’oca di “Pyramid Song”, unico ripescaggio da “Amnesiac”, e di “Reckoner” che è apprezzata quanto e più di “(nice dream)” rimessa in scaletta dopo anni e che di notte incanta e commuove molto più dell’inusuale luce del giorno del soundcheck. I furori di “Paranoid Android” e, dopo il secondo break, la perfezione di una delle incontrastate colonne sonore del nuovo millennio, “Everything In Its Right Place” accompagnano verso la conclusione due ore e venti di solito indescrivibile shock audio-visivo.
Tutto al posto giusto, mai così vero.

Si vorrebbe tornare in tenda a dormire, ma la notte è giovane. Così nel NightPark, mentre Kere dei Bloc Party prova a fare meglio di Barat nel suo dj-set, ci si gode ancora frastornati l’ottimo live dei Booka Shade e la chiusura house in grande stile di Carl Cox che dà lezioni di house al resto dei nomi della maratona notturna.

RADIOHEAD
15 Step
There There
Airbag
All I Need
Kid A
The National Anthem
Nude
Weird Fishes/Arpeggi
The Gloaming
Myxomatosis
Climbing Up the Walls
Street Spirit (Fade Out)
Videotape
Jigsaw Falling Into Place

Karma Police
Bodysnatchers
Idioteque
——-
These Are My Twisted Words 
Pyramid Song
Reckoner
(nice dream)
Paranoid Android
——-
Everything In Its Right Place


BLOC PARTY
One Month Off
Hunting For Witches
Positive Tension
Talons
Signs
Waiting for the 7.18
Song for Clay (Disappear Here)
Banquet
Two More Years
One More Chance
Mercury
This Modern love
Prayer
Like Eating Glass
Flux
Helicopter

JARVIS COCKER
Angela
Further Complications
Leftovers
I Never Said I was Deep
Homewrecker!
Fat Children
Don’t Let Him Waste Your Time
You’re In My Eyes (Discosong)