Erykah Badu, Cavea dell’Auditorium (Roma) (6 luglio 2008)

Da due anni ormai credo nella Madonna (o in Iside, che poi dicono sia lo stesso). Da quando cioè mi apparve nella sua ultima incarnazione, con la Cavea dell’Auditorium a fare le veci della via per Damasco. E tornando Lei sul luogo del delitto, chi sono io per non ripresentarmi?

Il ciclone Erykah Badu si manifesta ogni volta come un rito, con la band ad anticiparla sul palco, scaldando il pubblico sino al suo arrivo.

A dire il vero, questa volta la Diva stava facendosi aspettare un po’ troppo, lasciando soli i suoi musici per oltre venti minuti, mentre quasi imbarazzati non sapevano più cosa improvvisare sul tema scelto come presentazione. Venti minuti abbondanti e giù fischi, indirizzati non tanto ai malcapitati, quanto a chi si stava facendo attendere. Alle mie spalle: “Fate usci’ Manuela Villa!”. Sì, proprio lei, la prole dell’indimenticato Claudio chiamata a soccorrere il pubblico infastidito dalle bizze della texana (questa è Roma, mica L.A.). Venti minuti quasi più indisponenti di un drone dei SunnO)).

Fino a quando non appare lei.

Passo felino, abito rosso squillante, copricapo bombato e lunghissima treccia, si avvicina lentamente verso il microfono con atteggiamento di sfida. Un sussurro, uno di QUEI sussurri, e pace fatta, giù applausi e urla di liberazione. Roma torna adorante e da quel momento l’empatia è massima.

Tanto per farvi capire, dopo un’ora e mezza Erykah è scesa dal palco tra scrosci di applausi, dopo aver ringraziato calorosamente chi gli aveva fatto dono di fiori o tele (e ci risiamo con l’adorazione). Ma il rito non era finito, pubblico accalcato in piedi sotto il palco, abbandonati i sedili, “Badu! Badu!”, tutti in coro, e Lei esce nuovamente, scalza e vicina come non mai, termina l’esibizione con le ultime perle cantate tra la gente, scattandosi foto coi fedeli che le donavano ancora foulard e collane che indossava rendendosi ancora più bella. No, signori, non c’è storia. Non perdetevela la prossima volta! Anche perché finora ho raccontato solo il rito ed ho taciuto della musica, che da sola basterebbe a rendere quest’esperienza diversa da tutte le altre. Erykah canta come nessun altro, i dieci musicisti alle sue spalle sono tigri ammaestrate di gran classe che rispondono ad ogni suo cenno, disposti in formazione piramidale al cui vertice giace, ovviamente, Nefertari in persona. Groove funky e r’n’b, calore e passione soul. Negli intervalli tra le canzoni Erykah scandisce l’esibizione calandosi nei panni della dj trasmettendo blues, funky e soul d’annata, oppure si ferma per sorseggiare una tisana da una tazza mentre tutti trattengono il fiato.

L’ultimo album è stato eseguito quasi per intero, non senza che gemme splendide come “Otherside Of The Game” od “Orange Moon” squagliassero ogni resistenza.

Concentriamoci su di Lei: è bella, no, è molto di più, ha la voce di una dea e la grinta di una guerrigliera, superba e popolana allo stesso tempo. È al vertice del suo (del nostro) mondo ma guarda anche al di fuori e ci trasmette l’entusiasmo e la speranza che la sua gente ripone in Obama. Si siede su uno sgabello mentre le tigri alle sue spalle si acquietano e parla del mondo, di come la sua nazione abbia esportato sangue e non democrazia negli ultimi tempi e di come la speranza sia riposta nella gente e in un uomo che possa cambiare l’America e, con essa, il Mondo (sì, vabbè, ‘sti americani sono sempre convinti di essere al centro, ma tant’è).

Insomma, gente, io ho la mia Divinità. Tenetevi pure le vostre.