Summercase Festival 2008 (Madrid) (18-19 luglio 2008)

di Luca Paltrinieri

La Spagna sta vivendo giorni tenebrosi per l’esplosione della bolla immobiliare, con il fallimento di varie grandi imprese. C’è chi dice che sia destino che succeda la stessa cosa nel mondo dei festival estivi: le lotte intestine hanno portato a spese gonfiate a dismisura per aggiudicarsi determinati artisti (vedi articolo di El Pais).

Guerre stellari.
Ovvero la guerra sotterranea tra il Summercase e il Festival Internacional de Benicàssim. Il conflitto, evidente per quanto smentito dalle rispettive parti in causa, inizia quando il Summercase decide di cambiare le proprie date e farle coincidere con il FIB. Allora il Festival di Benicassim decide di inserire un concerto speciale chiamato Saturday Night Fiber in territorio nemico: Madrid. E la guerra prosegue con il palinsesto. Nei 4 giorni di Benicàssim i nomi interessanti sono forse più numerosi che nei 2 giorni del festival organizzato dall’etichetta discografica catalana Sinnamon. Le munizioni: 9 milioni di euro a disposizione del FIB, e 7 milioni per il Summercase.
Le truppe sono schierate: Sigur Ros contro Mogwai, New York Dolls contro Sex Pistols, Battles contro Foals, e si potrebbe continuare a giocare.
Il festival che si svolge a Madrid/Barcellona è colpito da vari concerti annullati: MIA, The Long Blondes, Santogold, Sons & Daughters danno forfait. E si nota poi la mancanza di nomi del calibro di Leonard Cohen, stella del Benicassim.
Il recinto madrileño dove si svolge il Summercase sembra un campo di battaglia della Guerra del Deserto: un enorme spiazzo martoriato dal sole, solo polvere e ghiaia. L’intervento previo che sarebbe stato effettuato per togliere le pietre più grosse si nota appena. Boadilla del Monte è una zona residenziale fuori Madrid. Negli anni precedenti ci si arrivava grazie a navette messe a disposizione per il concerto. Quest’anno sono state tolte dato che passa vicino il neonato “Metro ligero”, via di mezzo tra metro e tram. Il problema è che dal capolinea c’è da camminare un quarto d’ora per arrivare sul posto, senza cartelli come guida.

VENERDI’ 18 LUGLIO

Il tragitto dura insomma più del previsto: quando arrivo sono già le 20.30. È già iniziato il primo concerto cui ero interessato:

The Breeders.
Mmmh, iniziamo male. Non so, forse non si sentiranno nei monitor, però tendono ad andare un po’ fuori tempo, e sono un po’ mosci. Avrei intenzione di rimanere un po’ di più (più che altro per sentire dal vivo “Cannonball”, lo ammetto), però quando sulla countreggiante “Drivin’ on 9”, che vede Kim Deal seduta e la violinista alla voce, quest’ultima stona vistosamente decido di allontanarmi in cerca di altre emozioni.

The Stranglers.
Quest’edizione del Summercase è un po’ all’insegna della nostalgia: Stranglers, Sex Pistols, Blondie, le stesse Breeders, Edwyn Collins…
Sorprendentemente gli Stranglers iniziano con una canzone in cui il cantante sembra fare il verso a Fraiser Kilmister dei Motorhead. Più che uno strangolatore, sembra uno strangolato. Ma come terza canzone piazzano senza indugi “Always the Sun”, giusto mentre il sole sta tramontando dietro il palco. Dopodichè infilano “Peaches”-  e i piedi iniziano a muoversi soli – e “Golden Brown”

Gli Stranglers sono forse un gruppo non trascendente, che è già parte del passato e non ha più molto da dire, però adempiono il loro compito in maniera professionale, e i loro greatest hits sono temi che fa piacere ascoltare, ricordando i bei tempi andati…
C’è molta gente qui al concerto di Boadilla del Monte, anche se mi dà come l’impressione che sia meno rispetto alla prima edizione, due anni fa. La maggior parte della gente sembra avere dai 18 ai 25 anni, ma si vedono anche alcune persone sulla cinquantina e passa.
Gli sponsor sono molti e in grande evidenza, dominando visivamente sul panorama. Ogni palco ha il nome di uno sponsor differente, e sono vari gli stand–vetrina, che allettano/attraggono con successo la gente con un chupito o una foto gratis.
Sono già le 21.30, ora in cui entrano in scena i… Kings of Leon.
La famiglia Followill si fa precedere dalla registrazione di un coro che intona un requiem:

Durante la musica, i quattro entrano in scena ed iniziano a suonare immediatamente, contundenti e massicci. Quando la voce si distacca dal resto, si riesce a percepire il particolare timbro di voce che contribuisce al successo del gruppo.
Tra i pezzi “My Party”, “Fans”, “Charmer”, “The Bucket”, “On Call”.
Non lesinano, insomma, sulle canzoni più conosciute: “If you want to sing along, I’d appreciate it”. Prima il cantante aveva fatto un po’ il ruffiano, dicendo: “We are a long way from home. Spain’s our favorite country”. Il folto pubblico non se lo è fatto ripetere due volte, e ha iniziato a cantare in coro, con le braccia alzate. In generale la gente è vestita in modo piuttosto normale, sono pochi quelli che sembrano venuti qui a posare, come avviene a volte in Italia. Tutt’al più, sono venuti con la loro migliore maglietta da concerto. Il panama sembra di moda, sono molti che lo indossano.

I Kings of Leon hanno un tocco sudista, che aggiunge un pizzico di freschezza alla loro musica, e il chitarrista tira fuori un suono piuttosto potente dalla sua sei corde. Abbandono il gruppo a metà del suo concerto perché alle 2230 iniziano Mogwai, e sono abbastanza curioso.
Finora la mia prima impressione è che non ci siano concerti che invoglino a fermarsi per essere goduti interamente. Dopo un po’ viene la curiosità di passare ad altro, di vedere com’è la musica degli altri palchi.

Noto un fatto curioso. E certamente fastidioso. Molti dei presenti hanno pagato fino a 75 euro per una giornata di concerti. Eppure molti invece che ascoltare la musica stanno chiacchierando, alcuni dando le spalle al palco. Ognuno è libero di fare ciò che vuole con i propri soldi – qualcuno con quelli dei genitori – ma nei pezzi più tranquilli disturbano le persone interessate alla musica.

Mogwai

Il gruppo scozzese è qui per riproporre in diretto “Mogwai Young Team”, unanimemente riconosciuto come il loro disco migliore. La situazione è perfetta per la loro musica atmosferica: è ormai buio, c’è la luna piena o quasi. Il gruppo entra in scena senza tante smancerie e inizia a suonare.
All’inizio si sovrappone un po’ la musica proveniente dagli altri palchi. Rispetto agli anni precedenti questo problema è stato affrontato cambiando l’orientamento degli scenari, con discreto successo. Ciò non toglie che, inevitabilmente, alle volte ci siano sovrapposizioni.
Avendo visto dal vivo un gruppo per certi versi affine come Sigur Ros, credevo di essere pronto ai cambi repentini di volume della musica, ma mi sbagliavo. I cambi nel caso dei Mogwai sono notevolmente più bruschi.
La musica è interessante, come capita con le formazioni esemplari di post-rock. È incredibile come cinque persone riescano a costruire intricati paesaggi sonori, generalmente con pochi suoni di tastiere: sono cavalcate prevalentemente chitarristiche, tra distorsione ed effetti.
Il basso della formazione scozzese sembra provenire da sottoterra, mentre sono certo che la grancassa sta suonando direttamente dall’interno del mio stomaco. Sto assistendo al concerto da poco più di mezz’ora, quando l’innalzarsi improvviso di un muro di suono particolarmente potente, fra le urla strazianti della chitarra, mi catapultano verso il bancone di uno dei bar. Non mi resta che chiedere una San Miguel.
Peccato che non abbiano la Mahou, la birra di Madrid – la migliore birra spagnola. In ogni caso non c’è da lamentarsi: per essere ad un festival, la birra è fresca e più che decente. Il consiglio è di berla rapidamente, prima che il clima da altoforno la scaldi irrimediabilmente. Quest’anno non ci sono i classici bicchieri di plastica. Presi da un impulso ambientalista, o fatti due conti in tasca, l’organizzazione ha optato per bicchieri di plastica dura, venduti a 1€ l’uno insieme ad un gancio per appendere il bicchiere alla cintura o allo zaino. Sapendo di averlo pagato, (quasi) nessuno lo butta via, e per le ronde successive passa il proprio bicchiere al barista. Può contenere solo l’equivalente di una birra piccola, e il prezzo di 3€ che costa al Summercase, in Spagna è considerato poco meno di un furto.
La musica dei Mogwai si apprezza meglio da seduti. O, meglio ancora, sdraiati. Purtroppo lo scenario dove siamo non è vicino agli spazi appositamente realizzati per il relax, con ventilatori e umidificatori. In un concerto da godere da seduto, non c’è modo di sedersi. E il palco dove stanno per comparire i Sex Pistols, è di fianco all’area Relax.

Sex Pistols
Il telone giallo che fa da sfondo cerca di mantenere l’estetica dei Sex Pistols di 30 anni fa, con la stessa tipografia. Il loro tour attuale si chiama “Combine Harvester”, però avrebbe potuto continuare a chiamarsi “Filthy Lucre Tour”. Anche perché il repertorio non può che essere lo stesso.
Suonano le note di una canzone che recita “England will be free”. E le pistole del sesso entrano in scena. Johnny Rotten grida “Enjoy or Die”, prima che i suoi compagni attacchino con “Pretty Vacant”. La parte strumentale suona compatta, ma allo stesso tempo è deludente. Potrebbe essersi trattato di un qualsiasi gruppo mediocre. Adesso che suonano con strumenti e ampli di migliore qualità, non c’è traccia del suono sguaiato e graffiante di 30 anni fa, loro marchio di fabbrica. La cosa curiosa è che, sentendoli su Youtube, l’abbassamento di qualità dovuto alla compressione di fatto giova al loro sound, più che nuocervi. Suonano più punk che visti dal vivo…

God Save the Queen:

Dal vivo la parte strumentale sembra più hard-rock che punk, soprattutto la chitarra. Le cose cambiano quando Johnny Rotten inizia a cantare. Adesso sì si riconoscono i Sex Pistols, se ne riconosce la voce principale. L’impressione dura comunque meno di quanto sperato. Fa un effetto grottesco e straniante il fatto che questi sessantenni imbolsiti e panciuti in un’epoca allo stesso tempo remota e imperitura furono gli alfieri del punk, di una cultura che non credeva nel futuro, che predicava con l’esempio la (auto)distruzione. E ora sono in qualche modo parte dell’establishment musicale che prendevano di mira. Lydon, con un camicione a righe che gli copre la pancia arrivandogli alle ginocchia, fa le sue smorfie, ma non riesce ad essere inquietante. La sua trasgressione su palco ora consiste in bere un sorso d’acqua, poi sollevare una bottiglia di whisky, ingollare un sorso per poi sputarlo sul palco. Per quanto grottesco, suscita più simpatia che pena. Si vede che non si prende del tutto sul serio, e comunica un po’ con il suo pubblico. Non c’è più l’ombra della rabbia e l’urgenza di un tempo. Se i Sex Pistols nacquero quasi come una presa in giro, sto assistendo alla presa in giro di una presa in giro. Un’operazione complessa. Si dovrebbe giudicare solo la musica, non il loro aspetto di middle class in vacanza, però è difficile in un gruppo che come pochi altri aveva fatto di musica e vita un tutt’uno. Mi verrebbe da dire che Glen Matlock è chi fa meglio la parte strumentale, mentre il batterista a volte mi dà l’impressione che stia rincorrendo il basso. Ma forse mi sto facendo prendere la mano. Lo spazio a disposizione del pubblico è pieno. Siamo in tanti, e da Mogwai il numero era pressoché lo stesso.
Avendo solo un disco all’attivo, suonano tutti i loro hits: No Future, EMI, Stepping Stone, God Save the Queen, Anarchy in the UK,…
Anche loro cedono alla tentazione e chiedono apertamente al pubblico di sing along, di cantare tutti in coro. Che scena. Tutti i punkabbestia per mano, con le creste che ondeggiano all’unisono. Una cresta prende fuoco con la fiamma di un accendino sventolato da uno della fila dietro. Che scena sarebbe stata. Ma le creste e i punk sotto di esse son ben pochi. Sono più numerosi i cinquantenni padri di famiglia e gli universitari figli di papà…
Mi riscuoto e vado a prendere un’altra birra. I concerti si susseguono, non ci si possono permettere distrazioni. I Sex Pistols, per quanto fuori forma fisica, suonano per un’ora e mezza.

Io passo sul palco di fianco per vedere un frammento del concerto di The Raveonettes che stanno suonando “Dead Sound”, un brano gradevole da ascoltare in sottofondo, in una versione più light di quella su disco. La batterista suona, in piedi, una batteria minimale: due toms e un paio di piatti. I ritmi sono semplici, quasi primitivi (è un complimento). La batterista della formazione originale è incinta, sicché come sostituta c’è la sorella.
Nella canzone successiva mi sto già un po’ annoiando, mentre la successiva è un po’ meglio. Si rifanno agli anni sessanta, sono come una versione odierna di Buddy Holly cantando nella vasca da bagno (per le dosi massicce di riverbero).

The Raveonettes – “Love in a Trashcan”:

Adesso è l’una. Stanno per coincidere in due palchi contigui i Kaiser Chiefs e una deejay anglo-iraniana, Leila. I Kaiser Chiefs li ho già sentiti l’anno scorso, quindi decido di aspettare che inizi Leila. É lei stessa a dare una mano ai tecnici che stanno montando i suoi macchinari. Il pubblico scarseggia: la maggior parte decide di assistere allo spettacolo del gruppo di Leeds.

Leila

Il set di musica elettronica inizia con sonorità un po’ acide, che si vanno ammorbidendo. Gioca molto creando dinamica attraverso frequenti cambi di volume e fa un uso esteso del delay. A quanto pare questa collaboratrice di Aphex Twin ha la reputazione di avere un pessimo carattere. Eppure saluta il proprio pubblico:
“Buenas noches. I wish you a wonderful evening tonight”. Ed inizia a cantare. Ma non muove le labbra. Mi accorgo solo ora che è entrata una cantante dal lato destro del palco.

Durante lo spettacolo si alterneranno tre cantanti differenti, uno dei quali ha un timbro di voce che mi ricorda un po’ Marc Almond. Il fatto che la musica elettronica proposta da Leila non perda il formato di canzone, e che i brani siano cantati dal vivo, la rende più facilmente fruibile. La sua musica è in qualche modo vicina al trip-hop, con l’aggiunta sporadica di frammenti vicini a un drum’n’bass depurato.
All’1:30 lo spettacolo finisce all’improvviso. Alla conclusione di un brano, Leila se ne va, senza una parola di commiato. Sarà per mantenere fede alla sua fama.

Faccio quindi in tempo a passare a vedere cosa combinano i Kaiser Chiefs, proprio mentre stanno intonando “Ruby”. Poco prima li avevo sentiti chiedere al pubblico di accompagnarli nei cori (l’onnipresente singalong). In questa canzone non c’è bisogno di chiederlo, io stesso mi unisco al vociare generale. Qui al festival c’è uno stand che pubblicizza il SingStar, e c’è sempre gente che si esibisce. Alla gente piace cantare in coro.
Sulle note di “Modern Way” penso come i Kaiser Chiefs siano un gruppo perfetto per questo tipo di festival: sono carichi, hanno un discreto arsenale di singoli orecchiabili e cantabili, perfetti tormentoni ma di buona fattura, coinvolgono il pubblico e suonano bene.

Un frammento dell’inizio di “Ruby”:

Prima di avviarmi verso casa voglio vedere l’inizio del concerto dei Neon Neon e dei Foals.

Neon Neon
Fortunatamente decidono di iniziare le danze proprio con “Raquel”, il loro singolo di successo. Per chi non li conoscesse, i Neon Neon sono un progetto parallelo di Gruff Rhys, cantante dei Super Furry Animals, con il quale Gruff vuole dedicarsi ad un revival della musica degli anni ’80 (sì, un’idea molto originale). A parte il singolo, le altre canzoni non mi stuzzicano al punto da farmi rimanere. Più interessanti, e attorniati da maggior numero di persone, sono i Foals.

Foals
Si tratta di un gruppo di ragazzini di Oxford, che fanno una musica che si rifà al dance-punk della no-wave newyorkese degli inizi degli anni ’80, passata al filtro dei gruppi attuali che fanno la stessa cosa, come The Rapture. Ricordano anche un po’ i Battles, per l’andamento frenetico e saltellante dei brani, l’uso di poliritmia, anche se non arrivano assolutamente alla stessa altezza del gruppo americano. Se la cavano benino sul palco, e lo spettacolo intrattiene.
Rimango una mezz’oretta prima di iniziare il pellegrinaggio verso casa. Dopo l’una e mezza la metropolitana non funziona, sicché devo prendere una navetta fino alle propaggini del centro, e poi lottare pazientemente con i tassisti. In questa parte di Madrid (Principe Pio), infatti, si radunano i tassisti che vogliono solo andare nella direzione opposta alla tua.

SABATO 19 LUGLIO

E fu sera e fu mattina. Secondo giorno.
Indosso la mia maglietta da concerto (Neil Young), ormai troppo sbragata x essere messa in qualsiasi altra occasione e parto. Aspettando il metro vedo sugli schermi le ultime notizie: sono state intercettate 120.000 pastiglie di ecstasy destinate al Summercase di Boadilla.
Oggi provo ad arrivare con altri mezzi. Metro fino a Moncloa poi bus di linea, 573. La durata del tragitto è la stessa, ma c’è meno da camminare una volta a Boadilla del Monte. Vi arrivo un po’ dopo le 19: il concerto di Edwyn Collins è già iniziato.
Ignoro Ian Brown che sta iniziando il suo spettacolo in questo istante e mi dirigo verso il palco dove riconosco il timbro di Edwyn Collins.
Non è che lo conosca più di tanto, però il suo hit “A Girl Like You” mi è sempre piaciuto. Sono curioso di vedere se ha qualche cosa in più da dire. E scopro con sorpresa che sì ha qualcosa da dire, ma lo dice con difficoltà. Nel 2005 ebbe un ictus, da cui ancora non si è ripreso completamente. La metà destra del corpo è ancora paralizzata, ed è costretto a rimanere seduto. Le parti di chitarra le eseguono due chitarristi, entrambi bravi e professionali. Nonostante i problemi di salute costringano Edwyn Collins a lottare in ogni canzone per mantenere l’intonazione, fa un gran bel concerto. Mi sembra di poter dire che quello che a volte differenzia un concerto da un bel concerto, soprattutto all’aperto, è quando si riescono a distinguere e seguire i singoli strumenti, invece di sentire una massa indistinta di suoni. In questo il cantante scozzese e la sua band (telecaster, chitarra semiacustica, un bassista che suona anche la tastiera, e un batterista – e tutti ai cori) sono maestri, regalando un’ora di buona musica, genuina, un’unione di rock mainstream e pop, con una spruzzatina di country che si conclude alla grande con “A Girl Like You”, con assolo scalda-popolo finale. Uno dei concerti migliori del festival, a mio modesto avviso, con un sound che si discosta dagli altri gruppi, che tendono a condividere un suono analogo tra loro.

Mentre aspetto che tocchi il turno del concerto di Whitey, faccio un giro per gli altri scenari. Quando arrivo da Ian Brown, l’ex leader di Stone Roses sta proprio cantanto un vecchio grande successo del gruppo, “Made of Stone”:

Fa piacere sentire un’altra canzone dei bei tempi andati, ma in realtà non è una versione molto incisiva, bensì piuttosto sciapa. Come altri inglesi che calcheranno i palchi del Summercase, non riesce a trattenere un commento calcistico: “Qué tal madrileños, I have one message for you: Cristiano Ronaldo, no es posible!”.

Nel palcoscenico di fianco sta suonando l’ennesimo hype della musica britannica, i Glasvegas. E come molti altri gruppi, suonano decentemente, ma sono tutt’altro che imprescindibili. Sono vestiti di nero, sembrano un gruppo emo, e la formazione è simile a quella presentata da The Raveonettes. La batteria sembra la stessa, e di conseguenza i ritmi anche in questo caso sono grezzi e primitivi, conferendo un po’ di immediatezza ai brani. I gruppi che presentano questo stile alla batteria mi fanno pensare ad un’influenza di Siouxie e il suo batterista, in certi brani di Siouxie and the Banshees e di The Creatures.

Whitey
Avevo letto che Whitey era un Dj e produttore, e mi aspettavo un Dj set, o qualcosa del genere. Invece si presenta come un gruppo, in cui Whitey, che canta, non prende più spazio degli altri componenti. Sono quattro: voce, basso (un Epiphone simile al basso di Paul Mac Cartney), chitarrista (una Rickenbacker) e uno dietro due sintetizzatori Korg e un portatile Mac. Le basi ritmiche digitali sono integrate da piatti di batteria e percussioni, suonate da tutti i membri del gruppo.
Suonano un pop elettronico nella onda di LCD Sound System. La voce ha anche un effetto simile a quello che utilizza James Murphy. È musica per ballare, insomma. Ma sono in pochi quelli che, sotto questo sole, fanno qualcosa di più che ciondolare seguendo il ritmo della musica. Anche se c’è sempre qualche esagitato. Whitey si è accorto che poca gente sta ballando, e che fa molto caldo. “It’s hot, so I excuse you if you don’t dance”. In un brano che non richiede la sua presenza, il chitarrista va a prendere la sua macchina fotografica e fa qualche foto al pubblico.
Se vi piace la musica di LCD Soundsystem, questo gruppo vi dovrebbe piacere.

A me è piaciuto, ma sono quasi le nove di sera, e mi tocca affrettare il passo per andare a trovare posto nella zona dove tra poco apparirà Nick Cave. C’è già molta gente in attesa, ma riesco a trovare posto vicino alla postazione del mixer.

Grinderman
Nick Cave e i suoi Bad Seeds, qui Grinderman, entrano di buon passo, tutti vestiti con un completo scuro, meno Warren Ellis che è già in camicia: il suo barbone gli terrà sicuramente già abbastanza caldo. Nick Cave saluta apostrofando il pubblico con un “Motherfuckers” e mostrandogli indice e anulare nell’equivalente inglese (e australiano?) del dito medio.
Iniziano il loro concerto: un impenetrabile muro granitico di distorsione, garage-rock al vetriolo, con Nick Cave in buona forma che esercita il ruolo di maestro di cerimonie e torturatore. Dopo aver insultato i presenti, al termine della prima canzone proferisce: “I Love You” e punta il dito fissando la gente una per una “I love you, yes you with the glasses on. I love you”. E i Grinderman riprendono a percuotere le nostre orecchie con le sbarre di ferro arrugginito delle loro chitarre distorte. Anche Nick Cave, in alcune canzoni, suona una Stratocaster. A dire il vero, Warren Ellis sta suonando un bouzouki elettrificato, che alternerà con una chitarra elettrica in miniatura e un violino, sempre distorti. Però a me viene il dubbio che, se avesse suonato sempre lo stesso strumento, forse non si sarebbe sentita molta differenza. Ellis sta cavalcando un feedback continuo, tanto se percuote i suoi strumenti analogici, quanto se sta lanciando loop preregistrati.
Si notano gli anni di esperienza: i Bad Seeds/Grinderman sono animali da palcoscenico, e si muovono con naturalezza e carisma.
I loro brani suonano molto energici: “Get it On” è bello carico, e Nick Cave interpreta al meglio la parte di predicatore del Far West, quando urla (ancora una volta indicando noi…). “Kick those white mice and baboons out! Kick those baboons and other motherfuckers out!” Le parti migliori del concerto sono quando la furia si placa e la voce dell’australiano si sente al meglio, con una qualità simile alle registrazioni. In questi momenti, mentre Martyn Casey continua a martoriare il suo basso, Warren Ellis ha solitamente in mano un paio di maracas gialle, con cui picchia un piatto di batteria che ha davanti.

Grinderman – Get It On:

Anche i Grinderman, come molte altre formazioni qui al Summercase, hanno preso l’abitudine di integrare la batteria con altre parti (tamburello maracas, percussioni, ma anche altre parti di batteria), suonate dagli altri musicisti.

Quando attaccano “Honey Bee”, Nick Cave (r)assicura: “This is a song you can dance to, if you like. I know it’s hot, but you are used to it”. Sono tutti brani anfetaminici, ma più che ballare fanno venire voglia di prendere a pugni in faccia il vicino al lato…

Interpol
Dopo Nick Cave, gli Interpol sembrano un po’ decaffeinati. Non so se è una scelta precisa, ma suonano ad un volume piuttosto basso. Troppo basso, direi. Tra un brano e l’altro ci sono dei vuoti, pause che non vengono riempite in nessun modo. La semioscurità in cui è immerso il palco impedisce di capire se c’è qualche motivo particolare. La Gretsch del chitarrista prende ampio spazio, in brani che sembrano confezionati apposta perché possa scorrazzare in libertà. A volte suona un po’ alla The Edge, facendo sembrare il gruppo come una versione cupa degli U2 con Ian Curtis alla voce. Gli Editors hanno davvero sonorità in comune con gli Interpol. I due cantanti si somigliano l’un l’altro più di quanto non assomiglino al modello comune (Ian Curtis, appunto). L’intonazione di Paul Banks è impeccabile, e il pubblico canta con lui e batte le mani.

Interpol – Pioneer to the Falls:

Juan Maclean
Alle 23,30 inizia un altro concerto per amanti dei suoni di LCD Sound System. Juan Maclean è un prodotto della scuderia di James Murphy, la DFA Records.
Si presenta in scena con una camicia rossa, e da lontano sembra Bruce Willis – sarà perché sono miope. Anche in questo caso si tratta di un live set, musica elettronica eseguita dal vivo. Il batterista si è piazzato sulla sinistra, e si vede di lato. Il punto di vista inusuale permette di apprezzare lo sforzo fisico necessario per suonare la batteria. Ci sono poi vari sintetizzatori e un Theremin, che Juan Maclean suona con dimestichezza. È la prima volta che vedo un Theremin suonato dal vivo, ed è uno spettacolo abbastanza divertente. Completa l’organico una ragazza dalla fisionomia orientale, che canta, suona un synth e le percussioni. Di fatto, anche qui la ritmica della batteria è integrata da piatti di batteria e percussioni, suonate da tutti i membri del gruppo. È quasi un marchio di fabbrica della DFA Records, o del genere musicale. Chi abbia avuto occasione di vedere dal vivo LCD Soundsystem e !!! avrà notato come sia una pratica comune, che sembra si stia estendendo anche ad altri gruppi.
La musica è quella che ci si poteva aspettare, electropop (o dance-punk, o dance-funk) di buona fattura. La qualità più rilevante a mio giudizio risiede nel fatto che è musica elettronica che mantiene un timbro marcatamente organico. L’unico neo è che il gruppo ha problemi di suono, che cerca di risolvere tra un brano e l’altro. Questo spiega come mai la cantante sia un po’ stonata. In un’occasione si rivolge alla postazione audio a microfono aperto, dicendo che non sente assolutamente nulla dal suo monitor.

The Verve
Il concerto dei Verve del 16 luglio in Italia era stato cancellato per una faringite di Richard Ashcroft, quindi temevo che ci fosse il rischio che non suonassero neanche al Summercase. Invece si sono presentati, e la voce del cantante non sembrava recare traccia di problemi recenti.
Purtroppo entrano in scena in ritardo, scombinando i miei piani e permettendomi di assistere solamente a tre canzoni. Troppo poco per farsi un’opinione precisa.
Iniziano con “This is Music”, dall’ultimo disco. Il suono è contundente, anche se pecca un po’ del vizio comune di voler creare un muro di suono compatto troppo impastato, in cui risulta difficile distinguere gli strumenti singolarmente. Si è soliti considerare i Verve un gruppo che introduce sonorità psichedeliche nel nerbo della musica pop-rock inglese. Dal vivo mi sembra che preferiscano lasciare quest’aspetto di lato, cercando invece suoni più tradizionalmente brit-pop. Se avessi potuto seguire il concerto per intero, forse avrei cambiato di opinione.

The Verve – This is Music:

La seconda canzone è “Sonnet”, e l’atmosfera più rilassata del brano, cantato ovviamente in coro da tutti, lo rende più facilmente apprezzabile. Questo brano conferma la mia teoria: laddove si riescono ad ascoltare tutte le parti strumentali e non si ricerca più una loudness fine a se stessa, la qualità emerge.

La canzone successiva è “Space and Time”, ed è simile alla prima come atmosfere. Quando attaccano con “Love is Noise”, mi sposto verso il palco di fianco, perché si stanno preparando ad iniziare i The Cornelius Group, ovvero la ragione forse principale per cui ero interessato a venire a questo festival. Il Summercase ribocca di gruppi inglesi ed americani – per questo sono molti gli spettatori anglosassoni – che ogni anno si ripresentano in festivals o concerti. Ma le possibilità di vedere un artista giapponese della qualità di Cornelius credo siano decisamente inferiori.

Quando iniziano a suonare il palco è coperto da un telo bianco, su cui risaltano le silhouettes dei musicisti, e su cui vengono proiettate delle scritte, tra le quali il nome dello spettacolo: “Sensuous Synchronized Show”. Dopodichè il telo scompare e i musicisti si mostrano al pubblico: tutti vestiti uguali, con camicie a scacchi bianchi e neri e colletto bianco, cravatta e jeans. Sono solo quattro: Cornelius alla chitarra e voce principale (ma tutti cantano, o per lo meno vocalizzano), un bassista, un tastierista, e una batterista fenomenale. Ma tutti i musicisti sono bravissimi: non c’è traccia di computer, non hanno auricolari, ma sono assolutamente sincronizzati e vanno a tempo come dei metronomi, nonostante i controtempi e cambi di tempo dei brani. Anche qui ogni strumentista ha davanti a sé alcune percussioni, soprattutto chimes. Come esibizione tecnica superano di una spanna tutti gli artisti visti sinora, e dire che non se la tirano per nulla, anzi suonano con molta nonchalance.

La loro musica è un misto di pop, musica elettronica, rock progressivo, heavy metal. Non c’è altro obiettivo, apparentemente, che il divertimento musicale, l’esplorazione sonora, la realizzazione di accostamenti improbabili.

È musica fatta con il cervello più che con il cuore, ma appassiona ugualmente. Il livello dell’interpretazione si avvicina molto alle registrazioni, senza apparente aiuto digitale. Molti suoni sono effettati, ma piuttosto discretamente; sul palco ci sono tre theremin, che utilizzano con misura e forse meno maestria di Juan Maclean.

Dietro il gruppo vengono proiettate immagini, generalmente prese dai videoclip dei rispettivi brani, sincronizzate sui temi eseguiti. Per l’ultima canzone, Cornelius utilizza un piccolo aggeggio per creare distorsioni, e si avvicina agli spettatori in prima fila per farglielo provare, mentre il resto del gruppo prosegue l’accompagnamento. Non ci sono trucchi da nascondere, la produzione di suoni è alla portata di chi ne abbia voglia. Il “Sensuous Synchronized Show” – il nome si rivela azzeccato – si conclude dopo un’ora d’orologio, non un minuto di più o di meno. Il gruppo si allinea a bordo palco, per un inchino collettivo al pubblico, come a teatro.

Cornelius.

Certamente uno dei concerti più interessanti del Summercase di quest’anno. Un festival senza grandi sorprese ma pur sempre interessante. Grigi di polvere dalla testa ai piedi, diamo appuntamento al Summercase 2009. Magari a Barcellona.