PAUL WELLER, 22 Dreams (Universal, 2008)

Paul Weller è tornato. Non serve aggiungere altro, basta pronunciare una frase del genere e il rock (e con esso il suo spirito più vero) è già salvo, almeno fino a quando non tornerà a farsi drammaticamente viva gente come i Finley, con le proprie brutali razzie perpetrate ai danni delle nostre malcapitate orecchie. “22 Dreams” è il nono album della carriera solista del Nostro e a ben vedere, come tra l’altro qualche illuminato ha già sottilmente notato, è forse questo il luogo musicale che il modfather aveva lungamente immaginato e inseguito nel volgere degli anni. Forse è ancora presto per dirlo, ma con ogni probabilità ci troviamo dinanzi al coronamento di una carriera trentennale o quantomeno ad un capolavoro senile, come talvolta i grandi vecchi e patriarchi sanno regalare al proprio popolo. Un disco monumentale, generoso, straripante (giustamente pubblicato in versione vinilica come doppio, perché questa è la sua naturale collocazione concettuale), enciclopedico, potenzialmente infinito. Dentro c’è tutto: soul bianco, blues, jazz, funk, psichedelia, beat, punk, garage, avanguardia, melodramma, ma soprattutto c’è la libertà di un’intelligenza che appartiene solo a sé stessa e plana slegata attraverso il gioco ad incastri delle epoche e degli stili. Un elogio della musica che è anche un manifesto programmatico della bellezza della musica come libertà, insomma. Una lezione di stile, in ultima analisi.

Ma cosa dovevamo aspettarci poi da uno che ha fatto la rivoluzione punk in giacca e cravatta, mocassini e riga da una parte? Uno che (in tempi non sospetti) ha saputo schiaffeggiare il proprio pubblico con un guanto di velluto ricamato di soul bianco al profumo di champagne, reinventandosi negli Style Councyl come la reincarnazione bianca di Sam Cooke e i Drifters… Costantemente dalla parte sbagliata o comunque altrove rispetto a dove sarebbe stato lecito schierarsi e quindi sempre, in fondo, dalla parte della ragione. E l’ultimo approdo è quello di un disco che suona rivoluzionario e miracoloso dalla prima all’ultima nota proprio perché non inventa niente, un disco fatto come sempre i dischi sono stati fatti negli anni in cui aveva ancora senso farli e in questo risiede forse la sua maggiore e irriducibile bellezza, nel sentire il suono pieno e cristallino di una chitarra che si profila in un fraseggio di blues levigato, nel lasciarsi accarezzare la mente dalle trame polifoniche di una batteria suonata da un batterista vero, fatto di carne, sangue, sudore, assoluta misura e respiro, soprattutto respiro. Non segnalerò singoli brani, né le collaborazioni illustri (numerose: Noel Gallagher, Graham Coxon, Robert Wyatt…) perché il disco va ascoltato e valutato nel suo movimento complessivo, come un romanzo di formazione, nelle sue dialettiche interne, nel suo crescere e moltiplicarsi in un disegno multiplo e articolato di prospettive e rimandi. Mi limiterò a dire che la migliore recensione ad un pezzo come “Empty Ring” l’ha scritta probabilmente una partita di calcetto tra amici giocata dal sottoscritto il giorno della Liberazione in riva ad un laghetto artificiale.

E il calcio c’entra eccome in tutto questo discorso. Perché c’è stata una bellezza del calcio che è finita probabilmente il giorno in cui Roberto Baggio si è tolto gli scarpini, nell’istante in cui i megaschermi al plasma hanno cancellato dalla geografia di un sport il numero 10, sacrificato alla mediocrità diffusa di una interpretazione edulcorata e prevedibile dell’arte “pedatoria”, in cui non c’era più spazio né necessità per l’anarchia dadaista del genio individuale, chiuso nel mistero accecante della sua unicità. E la storia di Paul Weller è anche, e soprattutto, la storia di una grande numero 10 (un fantasista si sarebbe detto in altri tempi, un senza fissa dimora tattica) del rock. “22 Dreams”, come una partita tra titani della musica, è qui a ricordarci quello che stiamo perdendo, quello che ci siamo persi…O capitano, mio capitano.

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