THE CURE, PalaSharp, Milano, 2 marzo 2008

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Vedere i Cure adesso è come aprire il diario di 2a media. E proprio ora che l’ho detto sono andato davvero a tirarli fuori, quei diari, e nel retrocopertina di quello di 5a superiore c’ho trovato proprio due cartoline di Robert Smith. Aprire l’album dei ricordi, dunque. E a volte questo è un qualcosa che non si vuole fare proprio così a cuor leggero.

Perciò approcciare il live di quello che era il tuo gruppo quando eri adolescente (e ti sembrava il tuo e di nessun altro, non so se mi spiego) può costare fatica, e per una forma di difesa inconscia e incomprensibile si può essere tentati di (cercare di) mantenere un sorta di distacco. Si è cresciuti, e che diamine.

Quello che dunque registra questo report è che – oggettivamente –  manca il tastierista, non è mai successo, almeno in tutti gli altri quattro live visti (dal ’92 in poi). I Cure sono come sciamani attorno al fuoco delle forze ataviche della musica basica, fatta di pochi elementi o meglio fatta da quattro elementi: richiamato il chitarrista elettrico Thompson con Smith che aiuta all’altra chitarra, poi solo il basso onnipresente di Gallup e la batteria comprimaria di Cooper. Ma questa danza non appare subito del tutto riuscita: nonostante il PalaSharp sia incommensurabilmente stipato sopra ogni inverosimile pensiero, l’atmosfera è più calda per la temperatura sudaticcia che per l’energia che (non del tutto) si sprigiona dal palco. Non che “A Night Like This”, “Lovesong”, “Pictures Of You”, “Lullaby” e “Catch” risultino piatte, anzi, le si ascolta volentieri, ma si ha come l’impressione che i Cure stiano prendendo le misure di un’ipotetica partita a freccette: non è che prendono il muro, ma vanno lontani ad un 20 pulito. E si sa che il triste 5 è proprio di fianco al 20.

Prove di trasmissione, tentativi liberi, però nonostante la non perfezione si sente sottopelle qualcosa di ancora totalmente vero nei Cure che man mano cresce, si autoalimenta in quelle che poi diventeranno le 3 ore di concerto (e se non fosse che i Cure ci hanno già abituato in altri live a queste lunghezze bulgare avremmo sottolineato con un ! quel riferimento temporale).

“Push” dà il via a questa riscossa, quasi che i Cure vogliano materializzare davvero quel “Go go go!” che Smith canta all’inizio. Da lì in poi (“Just Like Heaven”) vacillano le autoimposte certezze, quello che si è imparato e che a volte si rimanda a memoria, le regoline, il compitino. Insomma, per dirla breve, non ci si capisce più un cazzo.

“If Only Tonight…” è un concentrato di psichedelia dark, “The Kiss” un lungo ululato rabbioso (“i wish you were dead…”) in cui Robert Smith ci ricorda di sapere anche suonare la chitarra (nel suo personalissimo modo con tecnica non bella, efficacissima però), “Never Enough” e “The Baby Screams” continuano su questa intensa via. Poi i Cure sembrano voler dire: non è giunto il momento per le atmosfere scure? Intanto beccatevi questa “One Hundred Years”, sottolineata da perenni luci rosse come nella copertina di “Pornography”, e questa “Disintegration”, manifesto della non-vita legata alla disintegrazione che sentiva lo Smith trentenne. Pausa.

Ripresa e i Cure sono bravissimi a dare ai loro fans quello che vogliono. Cioè, prendete un qualsiasi appassionato del gruppo e chiedetegli che effetto gli possono fare queste quattro canzoni sparate così, una dietro all’altra: “At Night”, “M”, “Play For Today” e “A Forest”. Quasi la metà di una pietra miliare come “Seventeen Seconds”. Apoteosi. E altra pausa.

E ora vi rallegriamo pure? “Lovecats”, “Friday I’m In Love”, “In Between Days”, “Close To Me”, “Why Can’t Be You” e si mettono a ballare anche i vips nel loro palchetto riservato, ho già detto tutto, non serve sottolineare che i tecnici del palazzetto forse si preoccupano per la stabilità della struttura.

Ma sono le tre canzoni finali che sono la fitta al cuore, il 60 centrato, quello che si definirebbe il “colpo basso”, il “perché l’hai fatto?”. Già in “Boys Don’t Cry” si è regrediti, non si tratta di essere in preda ai ricordi di quando si era in 2a media, ci si è trasformati in quel ragazzino di 2a media. Non visione a ritroso, pura e semplice trasfigurazione. Beata. A bocca aperta.

“10:15 Saturday Night” non fa che alimentare questo stato paranormale che poi la “Killing An Arab” finale definitivamente decreta. E mentre attorno c’è chi inizia quasi a pogare sulle gradinate, ci si chiede come si tornerà a casa.

A 13 anni non si ha la patente.

(Paolo Bardelli)