GRINDERMAN, Grinderman (Mute / EMI, 2007)

“Questo disco è il ritorno sul luogo del delitto”. Neanche il nuovo look, clamoroso il baffo luciferino anni ’70, può smentire gli intenti deliberatamente revival del nuovo progetto che lo vede protagonista supportato dai tre Bad Seeds che lo accompagnano dal vivo nelle performance da solista. Basta già il titolo – tratto da un brano del 1941, “Grinder Man blues”, il blues dell’arrotino, del leggendario Memphis Slim – per intravedere una temporanea deviazione dal complesso percorso dello storico nucleo che risponde al nome di Nick Cave & the Bad Seeds. Un complesso percorso lungo il quale Re Inchiostro ha traghettato i suoi semi cattivi dai rumorosi esordi imbevuti degli eccessi punk delle sue prime band, i Boys Next Door e i mitici Birthday Party, passando per i morbosi episodi berlinesi tra inquietanti vagiti cantautorali e cavalcate psicotrope fino alla catarsi della conversione e della definitiva svolta crooner degli anni ’90 che lo erge all’olimpo dei songwriter più illuminanti del nostro tempo. Nonostante Cave non abbia mai disdegnato tanto dal vivo quanto nei recenti episodi più pacati e maturi, di sguinzagliare la sua personalità più ferina e truce (si pensi a “Dead man in my bed” e “Baby I’m on fire” in “Nocturama” e ad “Hiding all away” dell’ultimo “Abattoir Blues / The lyre of Orpheus”) questo “Grinderman” ci riporta indietro di vent’anni e passa.

“E’ arrivato il momento di ricominciare, di tornare a suonare nelle cantine e di mandare tutto a farsi fottere” inveisce orgoglioso introducendo il prorompente coro di “Get it on”. Basta un mefitico giro di basso distorto per far risorgere la perversa fenice nickcaviana dalle proprie ceneri. Gli anni di Melbourne delle performance più oltraggiose, – è noto che spesso e volentieri si presentasse sul palco con eloquenti bestemmie dipinte sul petto col sangue – gli anni di Londra dell’ulteriore esasperazione della sua immagine provocatoria, delle risse e dell’eroina, gli anni di Berlino vissuti perennemente sull’orlo del baratro. Con un filo conduttore mai abbandonato. La passione per il blues. Pur destrutturato e inquinato da malsane intuizioni post-punk e spericolate cacofonie tra l’industrial Einstürzende Neubauten del guru Blixa e l’avanguardia-garage dei Pere Ubu. “No pussy blues” è la violenta rivisitazione di un classico americano. I due semi cattivi più fedeli sempre protagonisti, il poderoso bassista Martin P. Casey che sfodera un altro giro di basso imperdibile e le incessanti frustate di Jim Sclavonous sospingono la latrante voce di Cave che si scontra con le feroce deflagrazione noise tra feedback e wah wah. E’ una sensazione strana immaginare Nick Cave imbracciare la chitarra, ma non mancano riff e assoli degni di nota. Chiaramente spigolosi e dissonanti quanto lo potevano essere in “From her to eternity” o in “The firstborn is dead”. Nella fangosa cavalcata blues di “Love bomb” e nella devastante “Depth charge ethel” (dedicata a un’amica eroinomane scomparsa) – esaltante connubio tra Gun Club e Birthday Party – e nella schizofrenica “Honeybee (let’s fly to Mars)” è invece un liquido tappeto di viola e hammond a inseguire l’irrequieta e animalesca voce di Cave che si contorce e si infiamma fino a ronzare, perversa e posseduta, nel ritornello.

Analizzato fin qui, l’esperimento Grinderman sembrerebbe ridursi a puro divertissement, una lunga jam-session (nei fatti è nato tutto più o meno in questo modo) in cui dare sfogo alle sonorità più viscerali e spontanee che i Bad Seeds non hanno mai rinnegato di amare. Non mancano però le fasi più riflessive. Anzi, a dirla tutta, le fasi più violente neanche prevalgono in un’ottica complessiva. Spuntano qua e là suggestioni psichedeliche tra Doors e Velvet Underground, care alle atmosfere torbide e disperate di “Tender prey” e “Your funeral my trail”, nella lisergica “Electric Alice” e nella rovente “When my loves come down”. Nella scarna titletrack aleggia un tenebroso minimalismo tra Tom Waits e primi Tuxedomoon con quel singhiozzante basso secco e ipnotico scosso solo nel finale da fulminei fendenti di chitarra, e nella desolante atmosfera di “Go tell the women”, illuminata dalla chicca finale in cui Nick duetta con Warren Ellis su una fioca base di violini.
Chiudono il quadro i due brani più vicini al mood dell’ultimo Nick Cave. Nella rassegnata ballad “Man in the moon” sfoggia compiaciuto quell’inimitabile timbro funereo e penetrante da cantastorie notturno. Sale, invece, in cattedra il pirotecnico violino del leader dei Dirty Three (che nell’album suona anche un bouzouki elettrificato) ad accompagnare il liberatorio sfogo di “I don’t need you (set me free)” che nel titolo quanto nelle parole suona come la ferma volontà di cancellare i momenti bui della gioventù. Volontà per altro ricorrente negli album degli anni novanta dopo il rigenerante ritiro spirituale di San Paolo. I fantasmi del passato sono vivi e vegeti nella fervida mente di Re Inchiostro, Grinderman ha il merito di rievocarli con un gusto per l’esorcizzazione scanzonato e rilassato che rende l’album qualcosa di più che un esperimento fine a se stesso.

Un album imperdibile insomma, non solo per gli adepti al culto di Nick Cave.

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