DIVINE COMEDY, Victory For The Comic Muse (EMI Parlophone, 2006)

Nel caotico panorama indie/revival che monopolizza la scena attuale, artisti come Neil Hannon rischiano di passare inosservati. Un po’ come i bohemien di un tempo, incompresi, tormentanti, sedicenti o veri geni, relegati ai margini della società. Non è un caso che in pochi – è un caso che per certi aspetti mi fa pensare ai Piano Magic – si siano accorti che questi Divine Comedy, presentati ogni anno come una sorpresa, in realtà esistono dal lontano 1989. Originariamente vicini all’idea di trio sono diventati, dopo otto album, una creatura plasmata a propria immagine e somiglianza da questo sventurato Wilde degli anni ’90. Un compositore elegante, anacronistico e “inadeguato”. Lo definiscono un dandy, ma la stessa etichetta di dandy mal si configura in questa società, da cui Mr. Divine Comedy cerca di fuggire rifugiandosi nella musica del passato, quando i valori estetici avevano un valore culturale diverso se non opposto. Dopo la “Regeneration” sperimentale modernista sotto l’egida di Nigel Godrich del 2001 e l’inevitabile rigurgito retrò del successivo “Absent friends”, il nuovo “Victory for the comic muse” che riprende il titolo dell’album d’esordio (“Fanfare for the comic muse”) è solo apparentemente una via di mezzo tra i due album della seconda fase. Una via di mezzo sbilanciata verso i Divine Comedy cui siamo abituati.

“If there’s a war I’ll sleep with you before you get killed” recita una buffa voce campionata che innesca il dialogo d’apertura tra leggerissimi archi e un piano secco come una percussione. Una movimentata revisione chamber-pop del decadentismo patinato del Bowie della trilogia berlinese. “To die a virgin”. Blasfema sinfonia da operetta glam che rapisce già a primo ascolto. Il bello è che, smentita ogni aspettativa, piove dal cielo un banjo che sembra venuto fuori da “Harvest” del vecchio Neil Young. E’ l’apertura dell’incontenibile “Mother dear”, un canto liberatorio da ascoltare in una strada in aperta campagna cercando di non sbandare, travolti da un vortice così fresco di sincera serenità. Serenità che non abbonda né latita. In “Diva lady” si affianca all’eleganza stilistica dei Roxy Music per la maniacale cura in arrangiamenti, senza mai forzare la mano, rischio che corre forse solo in questo brano. Perché la melodia è sempre centrale, mai messa in secondo piano dal contorno. La facilità con cui disegna melodie semplici e rievocative, espressive senza banalizzarne l’atmosfera, è disarmante.

Nelle sofferte e mature “A lady of certain age”e “The light of the day” si conferma la più valida risposta a Bacarach del pop del nuovo secolo. L’orchestra di oltre venti elementi accompagna le lievi linee melodiche fino al fugace intermezzo pianistico, “Threesome” che apre la seconda parte del disco. In questa seconda parte sembra prevalere una certa propensione teatrale tra Phil Spector, Scott Walker e i momenti più magniloquenti e melodrammatici del secondo Nick Cave. Basti ascoltare il meraviglioso crescendo che esplode dal tormentato paesaggio di “Count Grassi’s Passage Over Piedmont “ o la suggestiva (o suggestionante) inquietudine di “The plough”.“Party fears two” è l’interpretazione alla Morrissey di un’ammaliante cavalcata morriconiana degli Associates. Il tutto però con una voce che assume un timbro peculiare che rende inconfondibili i Divine Comedy. Etichettarlo come songwriter è ormai riduttivo. Neil Hannon è un musicista a tutto tondo. Chiude in bellezza “Snowball in negative”, cinematografica e notturna che l’avrebbe voluta scrivere Yann Tiersen, il momentaneo commiato di un artista che, fosse per lui, si limiterebbe a suonare sotto falso nome nei teatri rinunciando ai vincoli discografici e promozionali che poco si addicono a questo trentaseienne nordirlandese nato in un’epoca, o forse in un secolo, sbagliato.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *