THE DIVINE COMEDY, “Office Politics” (PIAS, 2019)

Il dodicesimo studio-album dei Divine Comedy (aka Neil Hannon) è uscito ad inizio giugno. Con un colpo di scena degno del testo di “Our mutual friend” – un classico di ormai quindici anni fa del genio nordirlandese – “Office Politics” è arrivato sparato al quinto posto delle charts inglesi, cosa mai successa in ormai 30 anni di onorata carriera.
Perché? Chissà.

Oddio, non è che ne sia sorpreso, anzi, fosse per me ogni disco dei DC avrebbe meritato il primo posto in classifica. Ci ha anche provato, Hannon, a solleticare in tutti i modi il mainstream e farsi ricoprire di sterline dai consumatori britannici con “pezzi pronti per le charts”, ma è andata sempre male, ad eccezione di qualche singolo da top ten (“National Express”, per esempio). Il guaio, se così si può dire, di Neil è quello di essere démodé ed essere démodé è come arrivare sempre un momento dopo ad un appuntamento importante.

Deve essere stata dura. Nel 2001 cercò perfino la mano fatata di Nigel Godrich, che produsse il magnifico “Regeneration“, un disco saltellante tra Radiohead, Beatles, barocchismi, vaudeville e indie-songs che attirò solo apprezzamenti dalla critica: il pubblico doveva essere distratto.

Deve essere stata dura, ma adesso ce l’ha fatta e ce l’ha fatta con un lavoro che non rivaleggia con le sue opere più importanti (“Casanova”, “Absent Friends“, “A Short Album of Love”), ma che continua, peraltro rinnovandosi, a divulgare l’enorme perizia compositiva dell’uomo di Londonderry.

Rinnovamento, sì, perché “Office Politics” è un album fatto per metà di sintetizzatori, difficilmente immaginabili nei barocchismi dell’autore. In realtà, spulciando nella carriera, si trovano esempi pregevoli di uso di “Infernal Machines”, per citare il titolo di uno dei sedici pezzi che compongono il disco: la b-side “Ya Sumeera” o la cover techno di “I’ve Been to a Marvellous Party” (old standard di Noel Coward) testimoniavano di un flirt che in “Office Politics” si manifesta pienamente nella citata “Infernal Machines”, nel dialogo con il robot di “Psychological Evaluation”, nel divertissement di “The Synthesiser Service Centre Super Summer Sale”, nella 80’s vintage, tenerissima “A Feather in Your Cap” e nel geniale mantra “Philip and Steve’s Furniture Removal Company”, omaggio al minimalismo di Philip Glass e Steve Reich.

L’altra metà di “Office Politics” offre eclettismi vari, dal saltellante boogie rock di “Queuejumper” (pare che si salti la fila anche nel Regno Unito, non siamo soli allora), al Prince-soul della title track e di “Absolutely Obsolete”, dall’ennesimo tentativo di scrivere il singolo definitivo (“Norman and Norma”) alla conclusiva “When The Working Day Is Done”, che torna ad abbracciare quelle solennità da parata militare ottocentesca tanto care a Hannon.

E anche a chi lo segue da quasi 30 anni in questo suo viaggio ironico e barocco, dove ogni canzone è un film, epico, plumbeo, apocalittico, una commedia con Audrey Hepburn, una spy-story con Michael Caine musicata da John Barry, una storia d’amore cantata con grazia e disincanto da un dandy démodé.

75/100

(Max Cavassa)