MUSE, Black Holes And Revelations (Warner, 2006)

C’è sempre il momento in cui un rockettaro si mette in testa di diventare anche appassionato di musica classica, ma – di solito – quel periodo dura poco e non lascia molte tracce. Che l’obiettivo recondito dei Muse sia quello di farci tornare quell’insana voglia? Interrogativo facile dopo aver ascoltato il cantato di Bellamy in tutto “Black Holes And Revelations”: un unico, ininterrotto gorgheggio barocco dall’inizio alla fine. Nel cd non ci sono, ma se ci fossero i canonici 2 sec. di pausa tra un brano e l’altro, il gorgheggio continuerebbe anche lì.

Una tendenza che pare accentuata troppo in questo quarto album nel vero senso del termine (escludiamo dal computo la raccolta di live/b-sides “Hullabaloo”), e lo dice chi ha sempre amato i Muse e quindi non ha idiosincrasie per i loro eccessi musicali progressivi e quasi kitsch. Un grosso problema che uniforma le canzoni togliendo riconoscibilità – e quindi personalità – alle stesse, nonostante “Black Holes…” sia il lavoro in cui più i Muse hanno diversificato gli arrangiamenti. Il che doveva essere garanzia di varietà e sorpresa per l’orecchio tra una traccia e l’altra.

Invece l’orecchio è monopolizzato, catalizzato, inglobato nelle corde vocali di Bellamy che ormai non scandisce più le parole che canta, le modula come un usignolo e non gli importa cantare in un modo un po’ più pop. Voi capite quello che dicono ad un’opera lirica, anche se cantano in italiano? Io no, e credo che un inglese possa avere lo stesso cruccio con il cantato di Bellamy.

Sono i Muse, per l’amor di Dio, non è che si scopre nulla adesso, erano così anche prima. Ma ora superano quel limite sottile che passa tra una buona mangiata super-abbondante e un’indigestione.
Ci piacciono invece i due singoli “Supermassive Black Hole” e “Starlight” (siamo proprio dei paraculo…), belli scanditi e riconoscibili, molto radio-oriented ma… cosa c’è di male? Lì i Muse dimostrano di saper essere, sol che lo vogliano, eclettici senza scadere in sterili esagerazioni, anche un po’ furbetti con quel loro gusto melodico da grande pubblico che però è anche – indubbiamente – una loro carta vincente.

Insomma, cari Muse, tenetevi la vostra originalità ma ridate a Bach quello che è di Bach. La prossima volta che ascolteremo musica classica vogliamo avere o cinquant’anni o aver comprato in edicola la nuova monografia su Beethoven suonata dalla filarmonica di vattelapesca.

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