Caroliner Rainbow + Lendormin, Rialto S. Ambrogio (Roma) (23 marzo 2005)

Immaginatevi una corte dei miracoli in procinto di partecipare a una festa di Carnevale. No, meglio, un sabba infernale per freak della West Coast. Macché, siamo ancora lontani: forse una rilettura postmoderna delle mitologie perdute? Mmm, poco soddisfacente…magari un rito animista svolto sotto la tutela di un circo? Ok, ci rinuncio ufficialmente: è praticamente impossibile descrivere a chi non ha avuto la fortuna (e probabilmente il coraggio) di assistere a un concerto dei Caroliner Rainbow le sensazioni che questo sestetto californiano riesce a provocare.

In apertura c’è stato il brevissimo assaggio musicale del duo romano dei Lendormin, chitarra e batteria, impegnati in un noise urlato non particolarmente dissimile dal frastornante rullo compressore messo in atto negli ultimi anni dai Lightning Bolt, con l’unica differenza che il duetto basso/batteria statunitense ha molte cose da dire, i rumoristi nostrani, almeno a prima vista, sembrerebbe di no. Tocca poi a un terzetto, denominato per l’occasione Special Guests, entrare in scena, con la sua improvvisazione vagamente dadaista strutturata ed eseguita con una classe da lasciare a bocca aperta: mentre la batteria si divide fra minimalismi corrosivi, improvvisi accenni di catarsi, ossessività percussive e rumori completamente avulsi alla deontologia classica dello strumento (vedasi bottiglie di plastica accartocciate, fogli stropicciati e via discorrendo) e la chitarra spazia da timbriche pacificanti a distorsioni e giochi di feedback, è al centro del palco – si fa per dire, non esiste in realtà alcun gradino a dividere i suonatori dalla folta platea disposta ad anfiteatro – che si sviluppa il clou dell’evento. Colui che sembra assumersi sulle spalle il peso del progetto (oppure sarà stata solamente un’impressione dettata dalla centralità della figura, quasi con la funzione di spartiacque fra gli altri due elementi) si divide tra i fiati e un basso pestato, ridotto a mal partito in più occasioni, sfregiato, quasi vilipeso nella sua essenza; ed è l’apoteosi dell’improvvisazione.

Acclamati a gran voce da un pubblico entusiasta, fungono da collante perfetto tra i Lendormin e il devastante show dei Caroliner Rainbow. Che fanno l’ingresso come ci erano stati descritti, come un po’ tutti ce li aspettavamo: in fogge del tutto improponibili, con corna, ectoplasmi di animali, fugaci apparizioni cubiste e i colori perfettamente in tinta con lo sfondo, tutto un turbinio di gialli, verdi, rossi. Colori primari come primario è il loro approccio musicale: pronti a lanciarsi in marce sbilenche e deliranti, tra urla a pochi passi dal metal, riflessi orientaleggianti, bassi e chitarre wave, organo psichedelico e uno straniante quanto indiavolato mandolino – farà la sua apparizione anche un banjo, a rivendicare il rapporto della band con le radici del suono americano -, i Caroliner Rainbow sono un fiume in piena, apparentemente inarrestabile, pronto a passare sopra il pubblico, a tirare oggetti, a sbattere l’uno contro l’altro. Tra stasi e ripartenze sempre più angoscianti questo spettacolo a metà tra la demenzialità e l’horror si protrae per più di un’ora. Tra l’uditorio c’è chi, stupidamente, scambia la foga animalesca, quasi tribale della band per un ritorno di fiamma del punk duro e puro e si scatena in un pogo grottesco e francamente risibile.

In realtà quello a cui il pubblico romano ha assistito è stato il concerto di una creatura nata da un incrocio tra i Residents, i barboni di David Peel e la Lady in the Radiator descritta in maniera sublime da David Lynch in Eraserhead. L’accostamento con l’universo di Sleepy Hollow fatto da Enrico Biagini in un articolo apparso su “Blow Up” è quanto mai azzeccato: i Caroliner Rainbow mettono effettivamente in scena l’America rurale, provinciale, lontana dalle metropoli smog/metallo/business ma ne esasperano i contenuti mostrandone il volto meno rassicurante, il lato oscuro e nascosto, l’incubo celato dall’apparente calma – un po’ probabilmente come il mondo altro in cui si immerge Donnie Darko nella pellicola di Richard Kelly -. E lo fanno mescolando alla visionarietà l’eversione, l’anarchia, la follia. E così possibile che i membri del combo non più in grado di stare dietro al tonitruante rimbombare della musica si mettano in un angolo a ballare indisturbati o si scambino gli strumenti, rubandoli letteralmente dalle mani dei compagni.

Quando, dopo più di un’ora, i sei abbandonano la contesa, un’idea mi si fa chiara nella mente. Venghino, siore e siori, ad assistere al grande spettacolo del Circo Caroliner Rainbow: tutte le bestie più terrificanti del mondo conosciuto si esibiranno solo per voi! Sì, ma nelle gabbie stasera c’eravamo noi…