PAVEMENT, Wowee Zowee (Matador, 1995)

E’ trascorso un solo anno dallo splendore di “Crooked Rain, Crooked Rain”, quando i Pavement danno alle stampe il loro terzo disco. Si intitola “Wowee Zowee” esattamente come un brano contenuto nel celebre “Freak Out” delle Mothers Of Invention di Frank Zappa e questo sembra un indizio dell’umore del disco. Infatti l’album è il più difficile e schizofrenico dell’intera discografia dei Pavement, diciotto brani per un’ora scarsa di musica che si aprono a tutte le sfaccettature toccate dal mondo musicale di Malkmus e compagni.

L’apertura ha il tocco romantico di “We Dance”, ballata limpida e classica come mai prima in un disco firmato dal gruppo di Stockton. Poi “Wowee Zowee” regala un marasma di suoni e atmosfere, tanto che le idee e gli spunti sembrano perfino troppi per essere racchiusi in un solo disco. Trovare brani incantevoli non è comunque difficile anche in questo caso. Si è detto della memorabile ballata che apre il disco, ma altrettanto pregevoli sono “Kennel District”, che coniuga energia e armonia in modo pressoché perfetto, e “Father to a Sister of Thought”, altro episodio incantevole che testimonia l’amore del gruppo per le ballate.

Certo è che “Wowee Zowee” mostra tutto il proprio eclettismo in ogni situazione, un disco di passaggio in cui il gruppo imbocca ad ogni brano una nuova direzione. Così il lavoro è segnato da tracce che sembrano schegge impazzite, tanto brevi quanto piene di follia. Prima “Brinx Job” con il suo caracollare divertito, poi “Serpentine Pad” e “Flux=Rad”, frammenti di furia punk rock, si alternano alla flemma leggera di “Motion Suggests” o di “Grave Architecture”. Si lascia spazio a soluzioni inedite come “Half a Canyon”, brano costruito su giro blues che viene via sfilacciato e frantumato fino all’approdo ad atmosfere psichedeliche, o “Western Homes”, breve episodio di elettronica minimale.

Ma si scoprono anche brani che affiorano lentamente, in modo quasi svogliato, crescendo fino a sfociare in deliziose melodie. Si intitolano “Rattled by the Rush”, “Black Out”, “Grounded” e “Pueblo”, momenti in cui il gruppo dà l’impressione di voler dilatare i propri suoni.
E’ insomma l’album in cui i Pavement rischiano di più, producendo continui strappi e stravolgimenti. Succede anche quando prendono le distanze da tanti stereotipi sulla propria generazione con “Fight This Generation”, che dopo un inizio fatato, impreziosito dall’intervento di un violoncello, finisce per sfociare in un andatura nervosa e spezzata.
Nel complesso non un capolavoro, ma un disco pieno zeppo di sorprese, opera di un gruppo che dimostra tutta la propria inesauribile creatività.

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