EL GUAPO, Fake French (Dischord, 2003)

Dopo più di un decennio sembra finalmente che la scena musicale sia pronta per uscire dal cono d’ombra che fu creato con perizia dal cosiddetto post-rock: in quel calderone critico furono spedite tutte – o quasi – le migliori intuizioni del decennio creando una coperta di confusione difficile da sollevare, e di fatto soffocando le band che venivano accomunate al genere.

In questi ultimi due anni si è però iniziata a farsi intravedere una controtendenza la quale, abbandonati i manierismi e le velleità intellettuali della parte più marcia del post-rock, si rifà alla new wave, con grande attenzione per gruppi storici quali i Pere Ubu, i Wire e, nel versante “sintetico”, i Devo. In questo gruppo di nomi spiccano gli El Guapo.

Il loro esordio su Dischord risale all’anno scorso, quando diedero alle stampe “Super/System”, folle concentrato di esperienza new wave, schizzi elettronici, frammenti rumorosi e attitudini indie rock (vista la casa di produzione viene facile tirar fuori il nome dei Fugazi di Guy Picciotto, ma in fondo al loro suono si sentono riferimenti anche ai Nation of Ulysses), destinato a passare sotto silenzio nei rari casi in cui non è stato pubblicamente – e scioccamente – dileggiato.

Questo “Fake French” dimostra fin dall’attacco di “Glass House” di voler perseguire strade lievemente diverse: un tappeto elettronico ossessivo segue un tempo da marcetta militare mentre le voci si rincorrono, anticipate da coretti in falsetto. Nel bridge si percepisce chiaramente l’idea base dell’album: far rivivere atmosfere in perfetto stile synth-pop e farle interagire con spaccati di indie rock. Tutto questo discorso è amplificato nello splendido incedere di “Just don’t Know”, creatura che sembra partorita da un incrocio tra gli Human League e Giorgio Moroder, e nella ballata tecnologica “Space Tourist”.

Questa ricerca mnemonica verso gli anni ’80 fa accomunare gli El Guapo ai Trans Am di Sebastian Thompson, che nel loro ultimo “TA” hanno intrapreso una sorta di viaggio nel tempo, immergendosi nella musica plastificata di vent’anni fa. Eppure questo non è perfettamente esatto per quanto riguarda l’esperienza degli El Guapo: non si tratta infatti di un semplice avvicinamento ad una stagione musicale irrimediabilmente perduta, ma di una fusione fra quelle sonorità e la tipica tendenza avanguardista della band. Solo così si può comprendere appieno un brano come “Justin Destroyer”, duetto vocale su toni completamente sfalsati trascinato via da un synth spaziale e da una batteria monotematica.

Dagli scherzi che avevano fatto la fortuna di “Super/System” arrivano la stralunata “I don’t Care”, voci filtrate su un tema da vaudeville con la batteria a lavorare sui piatti con grande perizia fino a formare la figura surreale di un’orchestra in azione ad una festa campestre per soli robot, e la conclusiva “Hollywood Crew” dove si fanno largo pianoforte e fisarmonica mentre il cantato acquista una componente eterea, creando un delicato sottofondo sonoro che cozza con le reiterazioni ossessive della base ritmica. Arte del contrasto, dunque, evidenziata anche nella tempesta indie di “Ocean and Sky” e nell’elettronica minimale e angosciosa della title-track.

Un album ottimo, questo degli El Guapo, nel quale si può vedere la speranza di un futuro che eluda da acritiche riproposizioni di passati defunti e da “gruppi di secchioncelli con vibrafoni” (per citare una definizione che Sebastian Thompson mi diede durante un’intervista).

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