KRAFTWERK, Tour De France Soundtracks (Astralwerks, 2003)

Se ne parlava da mesi: dopo anni di silenzio i Kraftwerk sarebbero tornati a dir la loro nella scena musicale con un nuovo album. L’ultimo loro vagito risaliva all’ormai remoto 1986, quando diedero alle stampe il mediocre “Electric Café”, stanca eco dei vari “Radio-Activity”, “Trans Europe Express” e “The Man Machine”.

Rimane da chiedersi cosa abbiano combinato Hütter e Schneider (ovvero Ralf e Florian) negli ultimi diciassette anni: a giudicare dal risultato di questo “Tour de France Soundtracks” si potrebbe presupporre che abbiano passato il tempo a girarsi i pollici. Definire una delusione quest’ultimo lavoro è veramente cosa troppo facile: dodici brani praticamente imperniati su un’unica base reiterata all’infinito, senza intuizioni, senza invenzioni, senza stravolgimenti. Nulla di tutto questo, i Kraftwerk sembrano aver scelto la strada della monotonia estremizzandola in ogni sua possibile via di fuga. E se è vero che la stasi e l’ossessività erano da sempre simbolo della loro ricerca musicale, qui sembra di assistere ad un esercizio di stile svuotato di ogni significato.

Tra l’altro l’idea alla base della struttura dell’album era quantomeno stuzzicante: tornare a percorrere le strade della famosa corsa ciclistica a tappe come era già avvenuto esattamente 20 anni fa, nel 1983, quando al gruppo teutonico (allora sulla breccia dell’onda) fu assegnata la sigla del principale evento ciclistico mondiale. Ma delle tre “Tour de France Ètape” solo l’ultimo frammento mostra qualche barlume di genialità, sfumando nelle angoscianti tonalità di “Chrono”. La lunga suite “Vitamin” mostra, durante gli otto minuti e passa di durata, una band prevedibile, quasi cristallizzata in un’epoca che è superata. Sembra quasi che i Kraftwerk, tra i padri dell’elettronica contemporanea, non riescano minimamente a comprendere l’evoluzione che la loro creatura ha prodotto e sta continuando a produrre (la stessa accusa la si può muovere anche ad altri gruppi-guida dell’epoca, come i Suicide), risultando a conti fatti vecchie glorie colte da immobilismo mentale.

Superata la delusione si può cercare la consolazione nella gran classe della band: i 17 anni di eremitaggio non hanno smussato gli equilibri e la sorprendente finezza intellettuale della loro elettronica, ancora oggi alla ricerca della fusione tra la freddezza della strumentazione sintetizzata e il calore dell’ispirazione mitteleuropea. Certo, è un po’ poco, e non mi sento di consigliare quest’album a nessuno, ma a volte bisogna accontentarsi.
Del Tour de France quest’album conserva solo le tappe in pianura, quelle con gruppi chilometrici di ciclisti che lottano e sudano per non perdere centimetri; se fossero state citate anche le tappe in montagna forse avremmo avuto davanti qualcosa di ben diverso.
Ma, lo si diceva anche in tempi non sospetti , “dove sono i Pirenei”?

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