Asian Dub Foundation, Rolling Stone (Milano) (14 maggio 2003)

1993. Il radar multietnico di “Iternational Times” dei Transglobal Underground era ancora in fase di gestazione, per non parlare delle le scariche impetuose dei Rage Against The Machine, mentre la scena underground di Bristol e dintorni scintillava di sperimentazioni elettroniche per le radio di mezzo mondo.

E pensare che tutto questo già andava a confluire nei sound-system di un gruppo anglo-asiatico che aveva mosso i primi passi poco lontano dalla capitale britannica, in quel della Community Music House di Farringdon: gli Asian Dub Foundation.

Queste radici sono ancora ben vive e pulsanti nella performance milanese, che fonde insieme le sonorità dei quattro album realizzati dalla band in una deflagrazione di energia intensa. Così come non vengono lasciate in parte quelle motivazioni che da sempre accompagnano la sigla ADF, in un connubio di impegno politico ed appoggio alle minoranze etniche sentito in primis ed affidato alle note.

Certo, in un decennio qualcosa può cambiare, come ad esempio la formazione che in questo tour si esibisce sui palchi europei coinvolgendo il pubblico dalla prima all’ultima fila: insostituibili i giri di basso di Dr.Das e le immissioni elettroniche del dj Pandit G, ma ora ci sono anche la batteria di Rocky Singh, gli MCs Spex (subentrati al buon Master D) e le percussioni di Prithipal Rajput.

E’ questa la formazione, decisamente affiatata, che nel corso del concerto innesta sull’energia tutta ADF striature delle sonorità più varie: da una prima parte che oscilla tra il reggae ed il raggamuffin, per poi accelerare il ritmo districandosi in una giungla di dub e drum’n’bass, sino ad arrivare ad una scena totalmente dominata dalle sonorità più orientali, che pure non hanno mancato di farsi sentire nel corso di tutto lo show (dai campionamenti di sitar agli interventi percussionistici che ricordano melodie tradizionali del sud-est asiatico).

In questo modo le tracce di “Rafi’s Revenge”, creatura del 1998 da molti considerata come opera magna della band, si mixano a quelle del successivo “Community Music”, in particolare una trascinante “Riddim I Like” che fa letteralmente andare in delirio il Rolling Stone. Tuttavia, la scena è dominata dal novello “Enemy of the Enemy”, ultimo album più o meno controverso riguardo la sua (presunta) poca originalità.

Una cosa è certa: dal vivo, gli ADF, si trasformano, liberano, mordono le proprie canzoni e le ritrasformano, in un qualcosa che è improvvisazione ed energia, cultura musicale senza limiti.