BOB DYLAN, The Times They Are A-Changin’ (Columbia, 1964)

A neanche un anno dall’uscita di “The Freewheelin’ Bob Dylan” che lo lancia nell’olimpo della musica d’autore mondiale, Dylan si ripresenta alla ribalta con un nuovo lavoro. E lo fa in maniera dirompente, lanciando nuove lucide invettive contro un sistema marcio e da combattere.

“The Times They Are A-Changin'” è il suo album più politico, il più intransigente, il più impegnato. Fin dalla title-track, trascinante ballata dagli echi progressisti. I tempi stanno cambiando, grida il menestrello ai suoi coetanei, e si rivolge di seguito agli intellettuali (“Who prophecie with your pen”), ai gestori del potere (“c’è una battaglia fuori che infuria, e presto scuoterà le vostre finestre e farà tremare i vostri muri”), ai genitori, ai quali viene chiesto di non criticare quello che non possono capire.

Sempre più capopopolo, Dylan traccia la strada, e la nuova via è fatta di libertà (“The order is rapidly fading”), consapevole che la sua non è comunque una rivoluzione definitiva (“Il presente di adesso domani sarà passato”). Molto più cinico e doloroso il tono di “Ballad of Hollis Brown”, dove viene raccontata la vita di un povero uomo della periferia, nel Sud Dakota, portato dalla disperazione e dalla disoccupazione ad assassinare la propria famiglia. Splendida la strofa finale, nella quale la storia assurge a resoconto dell’universo (“Sette le persone morte in un podere del Sud Dakota, sette sono i nuovi nati da qualche parte nella vallata”), dimostrazione di come nulla sia solo un episodio.

Tocca poi a “With God on Our Side”, dove si narrano le gesta infami della politica estera statunitense, in un crescendo di rara angoscia (“La seconda guerra mondiale finì, abbiamo perdonato i tedeschi e poi siamo diventati amici. Anche se hanno assassinato sei milioni di persone bruciandoli nei forni, anche i tedeschi hanno Dio dalla loro parte”) che culmina nello slogan finale, stanco ma risoluto e in fin dei conti ottimista (“Se Dio è dalla nostra parte impedirà la prossima guerra”).

Abbandonata per un attimo la contestazione Dylan si sofferma dolcemente sul mito del vagabondo, ancora forte nella sua poetica, nella malinconica e assolata “One too Many Mornings” per poi raccontare una vecchia storia del west, la vita di una donna scandita dal ritmo della miniera di ferro in “North Country Blues”. Ancora un inno antirazzista in “Only A Pawn in their Game” (“Gli viene insegnato fin dall’inizio che le leggi sono con lui per proteggere la sua pelle bianca , per rinfocolare il suo odio”) e poi ancora amore vagabondo in “Boots of Spanish Leather”.

“When the Ship Comes In” è una ballata dai toni profetici (quelli che irromperanno di lì a poco con veemenza), “The Lonesome Death of Hattie Carroll” è uno straordinario inno dei diritti civili, atto di accusa contro l’ingiustizia dei tribunali, pronti ad assolvere assassini solo in base al ruolo che ricoprono nella piramide sociale, “Restless Farewell” è la buonanotte alla Dylan, il saluto ad un altro album perfetto, scandito dalla sua voce, dalla chitarra e (a volte) da un’armonica leggera. Un vero cantastorie che ha solo un’idea in testa (“Dirò anch’io la mia e rimarrò come sono”) e la persegue, con struggente profondità e indiscutibile classe.

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